LETTERA
AD ALAIN TOUBAS
16 gennaio 2009
Caro Alain,
non so se ti abbiamo disturbato, il pomeriggio di martedì
13, quando siamo venuti nella tua galleria. Se lo abbiamo
fatto, perdonaci, ma era troppo il desiderio di mettere in
comune le nostre esperienze per il bene di tutti. La
domenica prima, ci siamo conosciuti al Teatro della
Memoria, incastonato come un gioiello fra i condomini di
Milano, in occasione del recital di alcune poesie che
Gianni Testori ti ha dedicato, e lunedì sera mi sono letto
con attenzione la sua biografia per immagini a cura di
Pierangeli e Dall’Ombra. Non crederesti quante cose
vissute in questi 30 anni sono riaffiorate in me!
Come ho scritto ad alcuni amici, dopo avere partecipato
alla giornata celebrativa in omaggio a Testori, alla
Triennale della Bovisa il 20 settembre 2008, nella vita
della famiglia umana c’è un filo conduttore che si
manifesta nella voce di Dio attraverso la poesia, e credo
che Testori gli abbia prestato le parole della sua arte. Ti
sembra che esagero a dire che Gianni (se fosse qui lo
chiamerei così, indegnamente e fraternamente) è uno dei
massimi poeti dell’umanità? Lo so che sei di parte,
perché ne sei l’erede universale. Infatti, il nucleo
di ragioni che adducevo a motivazione del mio giudizio era
che nessuno come lui ha descritto il dramma dell’uomo
contemporaneo nientificato nell’anti-materia (di vita
digitalizzata parla sempre più la psichiatria, come ha
fatto Andreoli): si potrebbe ricordare il “grande
fratello”, e così via. Ma proprio qui ritroviamo
l’immagine negata di quello stesso uomo: ecce homo.
“Grazie per lo scritto di Ratzinger. L’idea
dell’ecce homo è veramente profonda” mi
scriveva un amico di Ratzinger come Eugenio Corecco. Eppure
mai come oggi l’anti-materia ha il suo punto di
massima forza nella negazione del valore assoluto
dell’embrione umano quale “persona umana”
a tutti gli effetti (cfr. la recente Istruzione del
Vaticano: Dignitas Personae, e la ripetuta riflessione del
Papa col Corpo Diplomatico: “gli esseri umani più
poveri sono i bambini non nati”, che riecheggia la
passione di Madre Teresa di Calcutta quando diceva che ci
saranno sempre guerre, finchè ci saranno tutti questi
aborti).
Abbiamo visto la storica sintonia fra Gianni e quel gigante
di Giovanni Paolo II: la stessa percezione dell’uomo,
la stessa esperienza del sua dignità sacra. Il 29 luglio
1980 a Castelgandolfo si sono incontrati per la messa in
scena di “Interrogatorio a Maria”, e c’è
una foto dove si vede lui vicino a Camisasca (hanno avuto
un maestro come Apollonio in comune, ai tempi della
Cattolica), che batte le mani al Papa, che ha definito lo
spettacolo: “così semplice, così affascinante per il
suo contenuto essenziale, religioso, profondamente
teologico, profondamente umano”. Giussani assisteva
senza parole e guardava questo scrittore al cospetto del
Vicario di Cristo, questo scrittore che considerava maestro
dei suoi figli (come i ragazzi che lavoravano a Radio
Supermilano e andavano a trovarlo, come Intiglietta,
Rondoni, Doninelli, Fontolan, e altri), loro amato compagno
di strada e artista figlio della “slombardia” e
dell’Italia “che l’è malada”. 13
anni dopo, Giussani pronuncerà l’omelia al suo
funerale e dirà: “sei stato padre per questi giovani
che nella sperdutezza hanno trovato un punto di
riferimento”. E ricorderà un passo de Il senso della
nascita: “l’uomo è un evento immenso”.
Pur in questo deserto di gelo. Ma “tu da umile santo
– continua Giussani - hai ridestato attorno a te luce
e calore… e se mi permettessi di domandarti quale
parola vorresti ripeterci, così che rimanga la tua eredità
in questo breve spazio che ci resta da vivere, allora
occorre dire la parola ‘perdono’ o la parola
‘misericordia’ che è lo
stesso…imitazione del cuore di Dio, rappresentazione
del cuore di Dio …in una sua Enciclica Giovanni
Paolo II dice che la definizione più adeguata di Dio sta
nella parola ‘misericordia’, che infatti è la
parola più misteriosa per l’uomo, e più stranamente
attraente e meno credibile di questa … ora nella
storia la misericordia – dice il Papa – ha un
nome: Gesù Cristo … quante volte te l’ho
sentito dire: l’amore a Cristo, Cristo, Cristo Dio.
Chi saprà mai parlare dell’amore all’uomo
proprio di Cristo traboccante di pace? (Dionigi
Aeropagita)”.
Evidentemente, Gianni sentiva come batte questo cuore, e i
cuori di tutti con lui. Caro Alain, ce lo fanno vedere
queste righe di Gianni pronunciate la sera del 26 marzo
1981 a Palazzo Reale per la mostra “La Ca’
Granda. Cinque secoli di storia e d’arte
dell’Ospedale Maggiore di Milano”, e mi
sembrano fra le sue cose più belle, dove ogni punto e
virgola è un affondo più sperduto nella penetrazione della
natura nostra: “Tu mia città, mia patria –
bisognerebbe forse cominciare così, e poi continuare
– tu nostra Cà Granda, nostra casa della sofferenza,
della salute che torna, o del viaggio ultimo che, forse, da
te comincia e che da te ci porta alla pace eterna; e voi
infiniti, carissimi malati, infiniti, carissimi sofferenti
che nella Cà Granda siete stati per secoli e secoli curati,
siete guariti, o avete lasciato questa vita per
l’altra; e anche voi medici e studiosi che degli
ospedali siete un poco i padri; e voi infermieri e
infermiere, suore, frati, sacerdoti; voi direttori e
primari; e tu corteo infinito degli infiniti benefattori; e
anche tu fratello, e tu sorella di questa città e di tutte
le altre, perché vivendo qui, qualunque sia il luogo della
tua provenienza diventi milanese di Milano. Questa mostra
che s’apre stasera, questa silenziosa, profonda,
meditata, umile, gloriosa festa dell’assistenza,
della carità, della scienza, della storia, del costume e
dell’arte, è per voi; è per noi; ecco, è per
l’uomo: per l’uomo colto nel momento in cui,
per essere malato, e più fragilmente, più straziatamente,
più cristianamente, più civilmente, più totalmente uomo. E
anche per l’uomo che è sano; che un giorno
s’ammalerà ; perché questa è la cadenza reale della
vita; ogni illusione in proposito, risulta infingarda e
ladra. La sofferenza, la malattia, ci aspetta tutti; e
tutti un giorno potremo e dovremo aver bisogno di chi, in
quel momento, ci accolga, ci curi, ci abbraccia con un
affetto e un amore che mai prima abbiamo conosciuto”.
Quindi, tutto questo appartiene al messaggio di Gianni
Testori, come vi appartiene quello che abbiamo sentito
domenica al Teatro della Memoria: “Amore per sempre,
per sempre amore”, parole tratte da poesie dedicate a
te, mio caro Alain: la memoria si assopisce nel presente
… guarderai la morte scenderti grigia a lato
… respiri come un prato, come un bambino …
dormi, dormi … o mio vecchio stanco cuore, pastore
di me, compagno di dolore … quanta pietà occorre per
trasformare l’ansia che ci insegue in nostro amore
… baciami, guardami amore, guardami nel tuo cuore,
come uno solo immenso, infinito amore … azzurra
luce, pace … mai finirà questo tuo caro dolce prato
… questa gioia pareva impossibile ed è vera, ed
ecco, così, adagio, viene la sera … piango di gioia,
tremo di pietà. Tu mi chiedi: perché? Ti rispondo: è la
beltà. Vecchio sarò tuo figlio, lo fosti tu per me…
e la voce che mi dice: di te ho bisogno, ho fame, sei come
il sogno, la cara gloria, il pane… nella culla dei
baci, sepolta bestia stanca, vedrò la tua luce…
Dunque, che cos’è successo domenica pomeriggio al
Teatro della Memoria? Credo sia avvenuto proprio quello che
Gianni voleva che si facesse nell’umanità della
nostra amata e straziata società: l’amore come fatto
poetico. L’avanguardia culturale oggi è chiamata a
questo, perché a questo serve il teatro con le sue opere
(Gianni l’ha fatto col Salone Pier Lombardo, cogli
Scarrozzanti e gli Incamminati, e cogli altri).
Emblematicamente, ha illuminato la vita segreta di Milano,
e di tutti gli alveari metropolitani descritti come In
Exitu, dove Gino condivide con sua madre il dramma della
sua caduta nell’abiezione, e tutto avviene due ore
prima che si faccia l’ultima dose nel cesso della
stazione Centrale, e Gino chiede allo scrittore di dirgli
cosa siano le cose terribili che sta vivendo … e
pochi giorni prima, dopo essersi ancora prostituito al
parco, seduto su una panchina, sfinito, gli appaiono degli
angeli che scendono dal cielo sulle loro moto …
allora cade e sviene, e infine la morte, si fa
l’ultima iniezione, mentre rovescia la testa nel
water, e vede Cristo che lo prende in braccio (Intervista a
Gianfranco Colombo, Leggere, Gennaio 1988) E se dobbiamo
dirlo diversamente, ma nello stesso tempo liturgicamente, è
il teatro come processo, nel ventre del quale ogni artista
che sia vigile vuole verbalizzare la propria esperienza per
rendere la massa degli uomini, spesso stupidi, quando non
depressi e disperati, figli di un padre: e quindi,
“se il Vangelo di Giovanni inizia con: In principio
era il Verbo … e il Verbo si fece carne, ora la
nostra carne deve tentare il processo inverso e farsi
verbo, cioè teatro” (Il ventre del teatro, 1968).
Contemporaneamente Gianni scrive Erodiade, un monologo che
vede la protagonista urlare contro la testa mozzata del
Battista, e contro quel Dio che aveva preferito il santo a
lei (cfr. Erodiade, Programma di Sala, Teatro Popolare di
Roma, 1984). Di quest’opera ci fu un testo preparato
per Valentina Cortese, un testo per Adriana Innocenti nel
1983, un testo per Raffaella Boscolo nel 1991, mentre lui
disegnò in un quaderno una settantina di teste
impressionanti stravolte dall’orrore, che sarebbero
state esposte al Centre Pompidou di Parigi nel 1987. Quidi,
caro Alain, a fronte della posizione espressa da Platone ne
La Repubblica, dove si dice che nell’epoca passata
toccava ai miti della poesia presentati in teatro formare
le coscienze dei cittadini, ora toccherebbe alle idee della
filosofia espresse in concetti, dunque a fronte, o meglio
insieme a questa posizione, oggi assistiamo ad un ritorno
del teatro popolare come esperienza che tocca la persona.
Caro Alain, per una felice concomitanza, la nostra
chiacchierata di martedì pomeriggio nella tua galleria, che
poteva anche non vertere su temi così hard come Humanae
Vitae e la difesa della natura da parte della Chiesa, ha
visto in quel giorno tenersi a Roma al Palazzo della
Cancelleria un meeting dedicato a La Penitenzieria
Apostolica e il Sacramento della Penitenza: percorsi
storici, giuridici, teologici, e prospettive
pastorali”, che riecheggia proprio il messaggio di
Giussani a Testori durante l’ultimo saluto.
Credo di averti detto qualcosa di tutto quello che mi
sembrava dovessi dirti, sperando di non averti disturbato,
e proponendomi, se piace a Dio, di visitare le interessanti
opere che offri al pubblico nella tua galleria,
eventualmente sottoponendoti qualcosa di mio e del
Francesco, se ritenessi che non sia inutile continuare il
discorso. Mentre ti assicuro la nostra povera ma amichevole
stima, ed il particolare ricordo nella preghiera, porgo un
caro saluto
Alen Pandolfi
www.aleluja.info