LANCET: I COSTI DELLE PRIVATIZZAZIONI
Corsera – Venerdi 23 Gennaio 2009



Quanti morti può fare una privatizzazione? O meglio, se un conto si può fare, quante vite è costato il passaggio dal comunismo al capitalismo? E ancora: si può conteggiare l’effetto delle ricette economiche che quella transizione hanno dettata negli anni Novanta?

Il conto è stato fatto, e pubblicato su una delle più prestigiose riviste internazionali di Medicina, l’inglese Lancet, 4 anni di lavoro, modelli matematici complessi, basandosi sui dati dell’Unicef dal 1989 al 2002. Le conclusioni: le politiche di privatizzazione nei Paesi dell’ex Unione Sovietica e nell’Est Europa hanno aumentato la mortalità del 12,8%. Ovvero hanno causato la morte prematura di un milione di persone. Non che, finora, qualche stima non fosse stata fatta. L’agenzia Onu per lo Sviluppo, l’Undp nel 1999 aveva contato il 10 milioni le persone scomparse nel tellurico cambio di regime, e la stessa Unicef aveva parlato di 3 milioni di vittime. Lo studio di Lancet (firmato da David Stuckler, sociologo dell’Oxford University, insieme a Lawrence King, della Cambridge University, e Martin McKee della London School of Hygiene and Tropical Medicine), parete da una domanda diversa: si potevano evitare tante vittime, e sono da addebitare a precise strategie economiche? La risposta è sì. Ed è la velocità delle privatizzazioni che, secondo Lancet, spiega il differente tasso di mortalità fra i diversi Paesi. Si moriva di più dove veniva adottata la “shock therapy”: in Russia fra il “91 e il “94 l’aspettativa di vita s’è accorciata di 5 anni. Nei Paesi più “lenti” come Slovenia, Croazia, Polonia, si è allungata di quasi 1 anno. Grazie, signor Jeffrey Sachs.

Perché se gli operai inglesi negli anni “80, come nel film di Ken Loach, ringraziavano la signora Thatcher, gli operai delle fabbriche chiuse dell’Est devono in parte la loro sorte al geniale economista americano, consigliere allora di molti governi dell’Est. E infatti il signor Sachs ha risposto piccato con una lettera al Financial Times. Ma quel milione di morti ha ormai acceso il dibattito sui due lati dell’Oceano, sulle pagine del New York Times e nei blog economici. “S’è scatenata, risponde da Oxford David Stuckler, una rissa ideologica, ma noi non volevamo infilarci in un dibattito politico. Volevamo puntare l’attenzione sui rischi sociali. E poi il nostro non è un attacco alla shock therapy, tant’è che analizziamo solo le privatizzazioni, non le liberalizzazioni o le politiche di stabilizzazione”.

E il signor Sachs? Contesta i numeri. Dice al Ft che “dove sono stato consigliere, come in Polonia, non c’è stato nessun incremento della mortalità”. E il caso russo, dove sono state “vendute 112mila imprese di Stato” dal “91 al “94 contro la 640 della Bielorussia, e i tassi di mortalità sono 4 volte maggiori? Colpa delle diete russe, dice Sachs, ma più ancora del crollo dell’impero, “degli aiuti negati dagli occidentali a Mosca, tanto che “94 mi sono dimesso da consigliere del Cremino”. E Sachs non rinuncia all’occasione di seppellire il suo vecchio amico il Nobel Joseph Stiglitz. “Lancet ha ragione, la Polonia è stato un caso di politiche graduali. Quanto alla shock therapy, guardando indietro, è stata disastrosa, pura ideologia, che ha distorto delle buone analisi economiche”. C’è un altro dato che emerge nella ricerca: il legame disoccupazione-mortalità nell’ex Unione Sovietica. “Il perchè è evidente: erano le fabbriche che spesso garantivano gli screening medici” dice Stuckler, e con la loro chiusura nell’ex Urss è crollato anche il sistema sociale: numeri impressionanti di morti per alcool, di suicidi. “Mentre dove c’era una forte rete sociale, come nella Repubblica Ceca, in cui il 48% dei cittadini face parte di un sindacato o va in Chiesa, l’impatto è stato quasi nullo”.

Il sociologo Grigory Meseznikov, uno dei più apprezzati politologi dell’Europa dell’Est, risponde al telefono al Corriere che “si, sui ceti più bassi l’impatto è stato forte, ma accanto ai danni immediati , bisogna valutare i benefici e l’impatto positivo a lungo termine”. A Lubiana il sociologo Vlado Miheljak invece ricorda che “tra i motivi del successo sloveno, a parte la maggiore integrazione con l’Ovest, c’è stata soprattutto la lentezza. Allora tutto il mondo ci criticava perché non privatizzavamo come i cechi, come gli ungheresi, e invece probabilmente è stata la nostra salvezza”.