PERCHE’
NON SI PUO’ VIVERE SENZA AUTORITA’ ?
Articolo di Mons. Massimo Camisasca
Osservatore Romano - 22 novembre 2008
Il rapporto con l’autorità e, più in generale,
l’esperienza dell’obbedienza, sono ritenute
oggi da molti impossibili a vivere o addirittura un male da
rifuggire. Questo vale non solo nel mondo
dell’educazione, della famiglia e del lavoro, ma
anche talvolta all’interno della Chiesa.
Necessità dell’autorità. Non sarebbe più facile
vivere senza autorità? Non sarebbe più bello obbedire
soltanto a ciò che istintivamente può sembrarci utile e
opportuno, di momento in momento? Queste domande non sono
domande retoriche. Educare all’autorità vuol dire
innanzitutto aiutare la persona a scoprire la necessità di
essa non solo per il bene della propria vita, ma per la
vita stessa. Perché non si può vivere senza autorità? E
quale è l’autorità “vitale” per noi? La
vita dell’uomo, di ogni uomo, è costituita dalla
tensione fra due poli: uno da cui veniamo, uno verso cui
andiamo. Aiutare la persona a vivere tutto ciò nel
presente, nel rapporto con le cose e con gli altri, è tutto
il segreto dell’educazione.
Il primo passo è aiutarla a uscire da
quell’autosufficienza che la rende infelice,
malinconica. Don Giussani, in Tracce di esperienza
cristiana, parla della solitudine come esperienza
originaria. Allo stesso modo si è espresso Giovanni Paolo
II nelle sue catechesi a commento della creazione dell'uomo
e della donna. La scoperta della nostra solitudine, della
nostra incapacità ad affrontare da soli la vita, ci fa
scoprire dipendenti. Dagli altri e poi non solo da essi.
C’è una “dipendenza originaria” in
ciascuno di noi. L’esperienza della vita apre in noi
la domanda: essa è frutto di un caso o invece è mossa da un
disegno, da una presenza buona, da un Tu che ci ha voluti e
che ci ama? La scoperta dell’amore come origine della
vita è decisiva nel cammino dell’uomo verso il
riconoscimento di un’autorità e verso
l’esperienza dell’obbedienza, come esperienza
voluta e desiderata. Nello stesso tempo noi scopriamo
continuamente di essere attratti da qualcosa che è fuori di
noi e che contemporaneamente è anche nel fondo del nostro
essere. I nostri desideri rivelano delle attrattive,
mettono in moto un movimento, indicano delle attese.
Proprio qui si apre il posto dell’autorità. Di colui
che Dio mette a fianco della nostra vita per accompagnarci
in una scoperta dei nostri desideri più veri, in una
purificazione di essi e in una strada di risposta. E’
chiaro che in questo contesto nella nostra vita si
collocano molte persone. Non tutte hanno la stessa
importanza. Si tratta di scoprire all’interno
dell’infinito numero di autorità che la realtà ci
presenta, quelle o quella più decisiva per noi che ci
permette di raccogliere la voce di tutte le cose.
Obbedire a Dio o agli uomini? Solo Dio può rappresentare in
senso vero e pieno questa autorità. Perché egli soltanto è
il nostro creatore e salvatore, colui da cui veniamo e che
ci attende, colui che ci conosce fino in fondo e che
costituisce perciò la felicità del nostro essere. Ma il
rischio è grande: come obbedire a un Dio lontano,
misterioso, senza cadere nel rischio di obbedire a noi
stessi, all’idea che ci facciamo di lui, alla
confusione fra nostri desideri e sua volontà? Non
dimentichiamo poi che la presenza del peccato, originale e
attuale, rende ancora questa ipotesi più realistica. Per
salvarci da questo equivoco Dio si è fatto uomo e ha
continuato la sua presenza tra noi attraverso degli uomini
che lui ha scelto. Il suo metodo di presenza, da lui
liberamente voluto, indica la strada fondamentale
dell’obbedienza. Durante tutta la storia di Israele e
più precisamente ancora durante la vita di Gesù, è stato
chiaro che per obbedire a Dio bisognava obbedire a degli
uomini. “Chi ascolta voi ascolta me” (cfr. Lc
10, 16).
Dobbiamo allora obbedire a Dio o agli uomini? Anche a
questo apparente dilemma risponde la vita della Chiesa. Noi
dobbiamo in senso proprio obbedire soltanto a Dio. Nessun
uomo sulla terra infatti può arrogarsi il posto di autorità
che ha Dio. In questo senso Gesù ha detto che non possiamo
chiamare nessuno maestro se non lui (cfr. Mt 23, 10). Ma
nello stesso tempo è anche vero che, se non vogliamo
limitarci ad obbedire alla nostra idea di Dio piuttosto che
a Dio, di fatto ci troviamo ad obbedire a degli uomini.
Potrei sintetizzare così: dobbiamo obbedire solo a Dio, ma
egli per obbedire a lui ci chiede di obbedire a degli
uomini che lui sceglie. L’autorità sono sempre
persone scelte da Dio e in relazione con lui.
A Dio devono rispondere, a lui devono portare le persone a
loro affidate. Nessuna autorità si giustifica di per se
stessa, ma sempre e soltanto in relazione al creatore e al
salvatore. Questo è il significato vero
dell’espressione: l’autorità è un servizio. Non
quello sociologico che vede l’autorità come un primus
inter pares destinato progressivamente a scomparire, ma
quello teologico: l’autorità deve servire Dio per
poter servire gli uomini.
L’obbedienza è un’attrattiva o una prova?
L’uomo è costantemente dilaniato tra l’esigenza
di appartenere e la tentazione dell’autonomia, tra il
bene che vede e che approva, come diceva il poeta latino, e
il male che finisce per fare. Obbedire è naturale o
richiede una rinascita? Come fa l’uomo a discernere
quali siano le autorità che lo conducono verso la verità e
il bene? Come fa a coniugare le attrattive che riverberano
nella sua coscienza e gli inviti che vengono a lui
dall’esterno, dalle autorità che lo circondano? Ho
voluto qui delineare una serie di antinomie che dominano la
problematica di sempre e soprattutto quella attuale nei
confronti dell’obbedienza e dell’autorità.
E’ possibile una composizione di esse? E come deve
avvenire?
Soltanto colui che ci conosce, che ci ha creati, che ci
salva, può aiutarci ad entrare in questo cammino
dell’obbedienza, che è stato il suo stesso cammino di
uomo (“imparò l’obbedienza da ciò che
visse” cfr Eb 5,8). Dio è la nostra attrattiva perché
è la nostra felicità. Egli ha posto dentro di noi la sete
di lui, le esigenze di bene, verità, felicità, giustizia.
Ha mandato suo figlio come strada per realizzare questa
attrattiva. Questa strada coincide con un’aprirsi a
dimensioni sempre nuove e sconosciute della vita, a una
scoperta sempre più grande di Dio come felicità. Poiché si
tratta di un Essere sempre nuovo, incommensurabile,
infinito, poiché egli è una via che non coincide con la
nostra, nasce in noi l’esigenza di uno strappo, di
una prova, di una conversione verso un nuovo essere che è
chiamato a dilatarsi lentamente e che implica
mortificazione e sacrificio.
È questo l’aspetto duro dell’obbedienza e
dell’autorità, che possiamo attraversare perfino con
letizia, se abbiamo chiara la promessa che ci è stata fatta
e la realizzazione di essa nella vita che abbiamo già
percorso. È lo Spirito stesso che ci conduce a vivere con
ilarità l’obbedienza, anche quando non capiamo o non
capiamo tutto. Lui fa percepire in noi il fascino della
felicità che ci attende, fa gustare in noi la voce di chi
ci dice “vieni”, permette l’esperienza
della gioia anche nelle prove (penso a San Paolo quando
dice sovrabbondo di gioia nelle mie tribolazioni, (Cfr.
2Cor 7, 4 e 12, 10) e all’esperienza della perfetta
letizia in san Francesco.
Autorità e amicizia. Se è vero che l’autorità è
scelta da Dio affinché io possa andare verso di lui, come
avviene concretamente questo cammino?
È l’autorità stessa che è chiamata a mostrare il suo
cammino verso Dio e a coinvolgermi in esso. È la realtà
dell’amicizia. Chi ha autorità crea connessione con
le altre persone innanzitutto mostrandosi nel suo rapporto
con il mistero. Condivide se stesso con gli altri e si
mette in ascolto di ciò che gli altri stanno vivendo. Senza
perdere di vista il posto che Dio gli ha assegnato, vive
un’amicizia che è segno di Dio, della sua infinità e
imprevedibilità. Dall’autorità nasce un rapporto
continuo, desiderato e pieno di iniziativa. È vero anche il
reciproco: bisogna rendere presenti se stessi
all’autorità: offrirsi cioè ad essa, attivamente, in
un dialogo instancabile di collaborazione. È questa
l’esperienza più importante che io ho vissuto negli
ultimi venticinque anni della mia vita. Non è detto che
essa sia l’unica modalità di rapporto tra educatore
ed educando. A me sembra però quella che permette di
entrare nelle apparenti antinomie sopra descritte e di
superarle senza nessuna negazione delle differenze. In tale
amicizia l’autorità resta tale, non abdica alle
proprie responsabilità, non scade in un giovanilismo o in
una compagnoneria, ma rischia realmente il proprio volto di
fronte all’altro, come ha fatto il figlio di Dio
diventando uomo. Si fa presente agli altri cercando un
dialogo con loro. Mostra loro le ragioni del suo muoversi e
gli itinerari che lo conducono alle sue decisioni. E così
facendo li coinvolge nella sua vita. Paolo VI scrisse:
“Il nostro tempo ha bisogno di maestri, ma essi sono
più credibili se sono testimoni” (Evangelii
Nuntiandi, IV, 41)
Mi sembra un’espressione che si riconduca a ciò che
voglio descrivere. Essere autorità, in altre parole, vuol
dire offrire la propria vita, le ragioni del proprio
vivere, i criteri delle proprie scelte e vuol dire anche
entrare, con somma discrezione e sommo rispetto, nella vita
degli altri, sapendo interpellare la loro umanità, offrendo
alle attese dell’altro quelle risposte che io sono in
grado di dare, in ragione della mia esperienza e della
sapienza secolare della Chiesa.
Da questo punto di vista l’autorità da me esercitata
è sempre stata, poco o tanto, una condivisione di
responsabilità. Gesù ha cominciato a mandare avanti a sé
gli apostoli. Per educarli a comprendere chi fosse lui, li
ha mandati a parlare di lui. Affidare delle piccole o
grandi responsabilità a colui che ci è consegnato da Dio si
rivela come la strada più efficace per aiutarlo a vivere un
rapporto giusto con l’autorità. Nessuno dà soltanto o
soltanto riceve, ma tutti danno e ricevono in una misura
decisa da Dio.
Autorità, paternità e maternità. Quando Dio ha pensato alla
Chiesa, a una compagnia guidata, ha pensato alla necessità
costitutiva dell’essere umano di avere un padre e una
madre. Sappiamo tutti quanto l’assenza o la latitanza
o l’indebita ingerenza delle figure genitoriali
creino nella persona insicurezza, paura, resistenza
all’essere amati e guidati. Una autorità che guida
secondo l’itinerario che ho tracciato può veramente
diventare padre e madre e aiutare a scoprire la paternità
di Dio e la maternità della Chiesa. Dobbiamo nello stesso
tempo affermare con molta chiarezza che non dobbiamo mai
permettere nella persona la censura nei confronti dei
propri genitori carnali. Essi non devono mai essere
dimenticati, né trascurati, ma accolti, amati e forse
riscoperti. Rivissuti in un rapporto nuovo che esprima la
verginità che si è abbracciata. In questo modo la persona è
portata a riconoscere il valore putativo di ogni paternità
nei confronti della paternità di Dio, che è l’unico a
cui propriamente può essere attribuito il nome di padre.
Amico e padre (o madre): queste espressioni con cui ho
voluto descrivere la mia esperienza dell’autorità
dicono anche la delicatezza di questo itinerario. Una
paternità e un’amicizia non possono essere imposte,
ma soltanto proposte. In una comunità, anche quando ha
origine carismatica, dobbiamo sempre coniugare il valore
oggettivo dell’autorità con l’esercizio
soggettivo dell’amicizia e della paternità. Dobbiamo
sempre essere il segno della alterità di Dio che giunge
agli altri attraverso la misericordiosa pazienza di Cristo.
Tutto ciò esige nell’autorità una grande maturità
umana e cristiana, una grande discrezione e pazienza, una
grande umiltà che sa riconoscere i propri errori. Esige
anche il consiglio di tanti collaboratori e fratelli.
L’autorità deve essere sempre il segno oggettivo di
Cristo, colui che sa essere l’avvocato difensore
delle differenze di tutti, colui che ha un rapporto
personale con ciascuno e che sa valorizzare l’apporto
di ciascuno.
I passi di un metodo
a) Educare significa certamente anche parlare. Un superiore
deve sapere che le sue parole hanno un grande peso nella
vita delle persone a lui affidate. Per questo occorre
sempre prepararsi con cura, cercando di non lasciare nulla
al caso, consapevoli che ogni frase può essere
significativa in un senso o in un altro. Noto che in questi
anni il tempo necessario per preparare i miei interventi e
i miei colloqui, anziché diminuire in forza
dell’esperienza, è aumentato. D’altronde credo
sia esperienza di tutti: quando si è giovani, sui venti o
trent’anni, si tende a parlare speditamente, senza
pensare troppo a quello che si dice, mentre poi, col
passare del tempo, parlare diventa più arduo, perché le
cose che si dicono cominciano a pescare a una profondità
tale che si preferirebbe tacere e occorre ogni volta
rompere la crosta di se stessi.
Allora parlare diviene un avvenimento, la ripresa di certe
parole permette il riaccadere del loro significato.
b) In seminario ho sempre cercato di insegnare la
tradizione proprio ripresentando l’insegnamento che
io stesso ho ricevuto: il canto, l’apertura alla
letteratura e alla poesia, l’apertura ai maestri. Don
Giussani è stato un maestro per me. Le sue parole mi hanno
sempre aperto ad altri magisteri, mi hanno introdotto a
Leopardi, Pascoli, Pavese, Dante, Manzoni… Egli
aveva capito che nessun uomo può essere un maestro
esclusivo. Anzi, uno è tanto più maestro quanto più è
capace di indicarne altri.
c) Per educare una persona non è necessario dire tutto
subito, anzi, la fretta di giungere subito alle conclusioni
risulta il più delle volte dannosa. Il vero insegnamento,
infatti, non è che il dispiegarsi di un avvenimento già
accolto, l’esplicitarsi di un qualcosa che si è
precedentemente sperimentato. L’esplicitare troppo
anticipatamente uccide. Occorre piuttosto accompagnare le
persone a scoprire esse stesse la verità, senza sostituirsi
alla loro libertà, senza bruciare le tappe. Gesù non ha
cominciato la sua missione dicendo frasi del tipo: «Dio
esiste ed è il Padre», ma ha preferito dire: «Guardate gli
uccelli del cielo, guardate i fiori della campagna: non
tessono e non cuciono, eppure sono più belli di ogni cosa
tessuta e cucita dall’uomo» (cfr. Mt 6, 26-29). In
ciascuna delle sue parole, anche se non esplicitata,
vibrava la presenza del Padre che crea e governa ogni cosa.
Egli riusciva a parlare di Dio parlando delle cose
quotidiane, di quello che era sotto gli occhi di tutti,
delle esperienze vissute ogni giorno da chi lo ascoltava.
Infatti ogni sua parola andava dritto al cuore
dell’uomo, come una proposta chiara e affascinante,
che urgeva una decisione. «Il fascino di ciò che è
implicito è più potente di ciò che è esplicito» ha lasciato
scritto Eraclito.
Non farsi prendere dalla fretta di dire tutto subito
significa anche porsi di fronte all’altro con grande
rispetto, significa ricordarsi che ogni persona è creata a
immagine e somiglianza di Dio e costituisce perciò un
mistero insondabile, irriducibile a qualunque schema o
progetto.
In sintesi vorrei dire così: essere autorità per
un’altra persona significa conoscere la sua strada,
aiutarla a riconoscere, ad affrontare i problemi che questa
strada indica. In certi momenti, poiché la libertà
dell’uomo è debole, occorre dare dei comandi, così
che l’altro possa riconoscere ciò che ancora non gli
risulta evidente.
Autorità e governo. L’autorità è una persona che
accompagna e assieme una persona che sa decidere. Deve
sapere dove portare chi gli è affidato, attraverso quali
tappe, deve esercitare con chiarezza il discernimento
sull’attitudine della persona alla strada che sta
percorrendo. L’eventuale amicizia non deve mai fare
velo alla giusta fermezza. Si tratta del bene
dell’altro, della sua felicità e di rispondere a Dio
dei compiti che ci ha consegnato.
Obbedienza o libertà. Se abbiamo seguito tutto
l’itinerario che ho descritto, siamo arrivati a
comprendere, al contrario di quello che pensano molti
nostri contemporanei, che libertà non è semplicemente
rispondere a se stessi. La non obbedienza non è la forma
ideale di vita. Al contrario, obbedire solamente a se
stessi diventa schiavitù, rende l’uomo facile preda
del volere del mondo, lo asservisce alle logiche del
mercato e al potere che tutto governa. Basti pensare alla
forza invasiva della pubblicità. Chi crede di non dipendere
da nulla finisce sempre con l’essere strumentalizzato
dal potere della mentalità dominante. Sant’Ambrogio
ha scritto: “a quanti signori finiscono per obbedire
coloro che rifiutano di servire l’unico
Signore”.