PELLEGRINAGGIO
MONDIALE DI AZIONE CATTOLICA RAGAZZI IN TERRASANTA.
CRONACHE DI AVVENIRE
Avvenire - Domenica 30 dicembre 2007
Un arrivo faticoso ma ripagato dall’accoglienza
festosa della comunità cristiana di Betlemme. Hanno dovuto
penare un po’ più del previsto i 150 giovani del
Pellegrinaggio Internazionale dell’Azione Cattolica
per sbarcare in Terrasanta. La consueta severità dei
controlli di sicurezza israeliana si è inasprita davanti ad
un gruppo così eterogeneo con provenienze da 27 Paesi
diversi, di cui alcuni privi di relazioni diplomatiche con
lo stato ebraico. Le procedure di imbarco si sono
complicate e hanno ritardato il volo per Tel Aviv.
Solo all’alba di ieri i pellegrini sono riusciti ad
arrivare nella città natale di Gesù, dove ad attenderli
c’era il Presidente dell’AC locale: Victor
Baboun con un gruppo di giovani della parrocchia cattolica
latina.
Sono stati proprio i ragazzi di Betlemme i protagonisti
della prima giornata di questo viaggio: nel corso della
mattinata hanno presentato la loro associazione e le sue
attività, confrontandosi con i coetanei del resto del mondo
sulle condizioni della loro vita quotidiana nella West Bank
“Siamo minoranza nella minoranza – ha spiegato
ai pellegrini Jacqueline Sfeir, Docente
all’Università Cattolica di Betlemme – e ogni
giorno dobbiamo fare i conti con i check-point, con i
blocchi stradali, con le trincee. E soprattutto con il
Muro.
Il primo impatto dei giovani di AC con Betlemme era stato
proprio al passaggio attraverso la cintura di sicurezza
eretta da Israele, che ormai da quasi cinque anni
imprigiona completamente la città e marca il confine con la
Cisgiordania. Tutti lo avevano visto tante volte in
televisione, ma dal vivo la gabbia di cemento ha
letteralmente sconvolto i pellegrini. “Eppure ne sono
certo, un giorno cadrà” ha detto Padre Samuel Habib,
il quale da tre mesi guida la parrocchia francescana di
Santa Caterina. “Ma noi dobbiamo impegnarci perché
crollino non solo i muri di pietra, ma soprattutto quelli
tra i popoli di questa terra”.
Un segno evidente di questa possibilità è il Caritas Baby
Hospital che i giovani di AC hanno visitato dopo essersi
recati al Campo dei Pastori e alla Basilica della Natività.
L’Ospedale è l’unico presidio pediatrico della
Cisgiordania ed oggi conta 82 posti letto e un personale
dipendente di oltre 90 persone, quasi tutte del posto, per
metà cristiane e per metà musulmane.
I pellegrini hanno prima celebrato la Messa presieduta dal
Nunzio in Israele S.E.R. Mons. Antonio Franco che si è
detto contento del viaggio: “vera esperienza
dell’universalità della Chiesa”. Quindi ci ha
pensato suor Lucia Corradin, una vicentina da cinque anni
presente al Caritas Baby Hospital, a raccontare il lavoro
quotidiano nei reparti di Pediatria e Neonatologia:
“oggi facciamo fronte soprattutto all’aumento
delle malattie genetiche. L’isolamento dei villaggi
palestinesi ha provocato una forte crescita dei matrimoni
fra consanguinei, e conseguentemente di questo genere di
patologie croniche”.
Quella del Caritas Baby Hospital è un’eccezionale
realtà di Chiesa a servizio della Terrasanta.
L’edificio svetta incollato al Muro come una
profezia. Il cemento ha finito per tagliare in due il
giardino dell’ospedale, ma lì dentro proprio non
riesce ad essere strumento di divisione.
Avvenire – Mercoledi 2 gennaio 2008
Gerusalemme: il Muro non ferma la danza della pace.
Al check-point del Muro non c’è fila al mattino
presto, e i pellegrini che da Betlemme vogliono salire a
Gerusalemme non fanno troppa fatica a superare il varco. Ma
sull’autobus dell’AC i pellegrini non riescono
a passare inosservati: facce di europei, latino-americani,
asiatici, troppo diverse per stare tutte insieme, qualcuna
davvero inconsueta qui. E poi ci sono i ragazzi di
Betlemme. Che hanno il permesso concesso ai cristiani dal
governo israeliano per visitare il Luoghi Santi durante le
feste di Natale. Ma il passaporto, quello no. E per
superare il varco a bordo di un mezzo è assolutamente
necessario.
Sul pullman salgono un ragazzo e una ragazza col mitra in
mano, di sicuro militari di leva. Non avranno più di
vent’anni. Ma sono implacabili: l’autobus può
andare avanti solo se i palestinesi scendono. I ragazzi di
Betlemme ci sono abituati. Gli altri un pò meno. Li
aspettano più avanti, per ricaricarli a bordo più di
mezz’ora dopo, quando saranno passati a piedi per il
controllo uno ad uno, nonostante il loro lasciapassare sia
perfettamente regolare.
A viverla così la Giornata Mondiale per la Pace acquista
tutto un altro significato. Perde la retorica che le
occasioni celebrative si portano appresso, e si va dritti
alla sostanza. E’ questa la caratteristica
fondamentale di questo Pellegrinaggio che sta mettendo
insieme 150 giovani dell’AC di 27 Paesi diversi,
compresi Israele e Palestina: si viaggia a distanza di
sicurezza dagli schemi consolidati del tradizionale turismo
religioso, e ci si immerge nella realtà della gente, della
Chiesa di queste terre.
La realtà l’ha ricordata ancora una volta il
Patriarca Latino di Gerusalemme Michel Sabbah, il quale ha
incontrato i pellegrini e ha celebrato con loro la Messa
solenne di ieri: “siamo due popoli, tre grandi
religioni e Dio ci ha radunati tutti qui: questa non può
essere la terra di uno solo. Oggi la mancanza di libertà di
movimento toglie speranza a tanti di noi, ma dobbiamo
credere ancora nella pace”. Al termine della
celebrazione eucaristica il Patriarca ha consegnato a un
rappresentante di ciascun Paese una lampada della pace a
forma di colomba prodotta da una cooperativa di artigiani
cristiani. Un segno da portare a casa insieme
all’invito del Vescovo: “siate grandi, cari
giovani, ma come Gesù, non come i cosiddetti grandi della
terra, perché bisogna servire gli altri prima di se
stessi”. E qualcuno gli ha già dato retta. Come
Vincenzo Bellomo, 28 anni. Viene dalla Diocesi di Mazara
del Vallo, ed è a Betlemme da un anno come laico fidei
donum, l’unico in tutta la Terrasanta per un progetto
di cooperazione fra le chiese. “La nostra presenza
andrebbe rafforzata, perché qui ci sono comunità cristiane
missionarie profondamente ancorate nella società ebraica ed
araba, e che agiscono da stimolo per la convivenza pacifica
e per la testimonianza della fede. Abbiamo molto da
imparare da loro, sia per quanto riguarda il rafforzamento
della nostra identità cristiana, così debole in Occidente,
sia per il rapporto con le altre religioni”. E in
questi giorni i giovani di AC stanno imparando davvero
tanto, perché rinchiusi nel Muro ci sono molti luoghi di
concreta costruzione della pace. Qualcuno lo fa con la
preghiera, come la minuscola comunità dell’Emmanuel,
il più piccolo monastero di Betlemme, dove la spiritualità
orientale si intreccia con la richiesta incessante della
pace. Qualcun altro lo fa col servizio ai più deboli, come
le scuole delle Dorotee di Vicenza che gestiscono Effatà,
una scuola per sordi nata per volontà di Paolo VI
pellegrino in Terrasanta nel 1964. Gli alunni sono 300, i
cristiani sono solo otto. “Ma per noi sono
bambini”, tagliano corto le suore.
Intanto il 2008 è cominciato con una speranza in più. La
festa della notte di Capodanno è andata avanti al ritmo
delle musiche di quattro continenti. Nessun check-point né
lasciapassare: hanno ballati tutti insieme. Anche questa è
pace.
Avvenire – Giovedì 3 gennaio 2008
A Gerico, calciatori tra i bossoli.
Hanno rialzato le mura di Gerico che, raccontano le
Scritture, crollarono miracolosamente durante
l’assedio mosso da Giosuè. Entrando in quella che
oggi è considerata la più antica città del mondo (il primo
insediamento umano certificato risale all’8000 avanti
Cristo) i bastioni non si vedono. Ma in compenso c’è
un'unica via di accesso, regolata anche qui come nel resto
della Cisgiordania da un severo controllo israeliano. Le
altre strade, un tempo numerose, sono state sbarrate dopo
la seconda intifada. In questa Gerico, ancora più sigillata
di Betlemme, che sono arrivati oggi i 150 ragazzi del
Pellegrinaggio Mondiale di Azione Cattolica. E ci hanno
trovato una piccola comunità cristiana. Così piccola
– ci hanno raccontato – che la Domenica delle
Palme arriva un pullman di fedeli di Nazareth per riempire
un po’ la chiesetta. Ma anche qui l’accoglienza
è stata generosa, con l’offerta della frutta lucida e
succosa di cui da queste parti vanno giustamente fieri.
Dopo la Messa i pellegrini hanno mangiato nel cortile della
scuola accanto alla parrocchia. Nel campetto sportivo hanno
giocato a calcio e a pallacanestro insieme a qualche
ragazzo del posto. Ma il clima qui è meno sereno che alle
porte di Gerusalemme. Se n’è accorto subito Gabriele,
21 anni, che è arrivato qui da Assisi come rappresentante
dei giovani di AC dell’Umbria. Ci mostra quello che
ha trovato a terra: il bossolo di un proiettile calibro 9,
tra i palloni che volano vicino all’atrio della
scuola. Dove poco distante dai ritratti di Arafat e Abu
Mazen c’è il graffito del profilo di un ragazzo a
volto coperto con i colori della Palestina e la fionda fra
le mani.
Ma c’è resistenza e resistenza. Lo ha spiegato bene
nell’ultima sera passata a Betlemme, Sami Basha, un
pedagogista che ha studiato a Roma all’Università
Salesiana. In Italia ha conosciuto e sposato sua moglie,
siciliana di Agrigento, e in Italia sono nati i suoi due
bambini. “Ma non potevo sradicarmi dalla mia terra, e
ci sono tornato”. E così la famiglia ha preso casa a
Betlemme, dove ora Basha insegna all’Università e si
impegna sul fronte formativo: “noi non vogliamo male
agli israeliani, anzi vogliamo loro bene. Sono i nostri
fratelli maggiori. Con noi stanno sbagliando. Ma la nostra
reazione, anche se dura, non deve mai essere
violenta”. Non tutti i palestinesi la pensano così.
“Lo so – ci risponde –
all’università la maggioranza dei miei colleghi e dei
miei studenti è araba musulmana. Ma come cristiani possiamo
insegnare che la sola resistenza vincente è
l’educazione”.
Intanto ieri sera i pellegrini sono arrivati a Nazareth,
dove hanno trovato ad attenderli i giovani di otto
parrocchie della città e dei paesi vicini. Infatti da ieri
i giovani sono ospiti nelle case di oltre sessanta famiglie
cristiane di tutti i riti: latini, bizantini, melchiti,
maroniti. Una comunità numerosa e vivacissima. A cominciare
dal Vescovo Ausiliare per Nazareth, Mons. Giacinto
Marcuzzo, che ha dato il benvenuto ai ragazzi: “qui
siete nel punto di convergenza fra Antico e Nuovo
Testamento, fr la vecchia storia e quella nuova, e siete
ospiti dei discendenti della prima comunità fondata
direttamente da Gesù”. Da oggi ci sarà modo di
conoscere di persona le loro storie.
Avvenire – Venerdi 4 gennaio 2008
I tamburi di Nazareth suonano forte e accompagnano il
cammino dei 150 giovani pellegrini dell’AC sulle
strade della città di Maria.
I ragazzi di questa comunità sono orgogliosi della loro
lingua, dei loro canti, della loro musica, si vede e si
sente da lontano. Hanno voluto fare ascoltare ai loro
ospiti la note della loro fede, cantando in arabo il Padre
Nostro e l’Ave Maria di Nazareth, l’inno
tradizionale della Basilica dell’Annunciazione. E poi
hanno suonato i loro tamburi e i loro coetanei di tutti i
continenti non ci hanno pensato su nemmeno un secondo: la
danza è divampata in un attimo, dall’Argentina alla
Cina, dalla Bulgaria al Mali.
E’ una gioia sincera, quella che accomuna tutte le
comunità cristiane incontrate fino ad oggi in Terrasanta.
Ovunque: da Betlemme provata ma non sfiancata dal suo
carcere di cemento, fin qui in Galilea, dove l’aria è
sensibilmente diversa, più serena, più sicura. Ma se la
situazione è migliore, questo non significa che la chiesa
di Galilea sia introversa. Anche qui non si contano le
opere di servizio e di carità, che lavorano senza riserve
per rispondere ai bisogni della popolazione locale. Come
sempre nel corso di questo Pellegrinaggio, i giovani di AC
le stanno visitando come fossero veri e propri
“luoghi santi”. “Qui non si fanno
differenze: nelle camerate dormono insieme ebrei, musulmani
e cristiani. E gli ammalati si aiutano l’uno con
l’altro senza troppi problemi”.
Suor Maria Teresa delle Suore di Maria Bambina ha la
parlantina schietta. La sua Congregazione è a Nazareth da
23 anni a servizio dell’ Holy Family Hospital dei
Fatebenefratelli. “Qui nascono 150 bambini al mese
– spiega – e 230 nel mese del conflitto
libanese dello scorso anno, perché non c’era altro
posto sicuro per le mamme di quella zona. Vogliamo
continuare ad essere quello che siamo, un “punto
interrogativo” anche per quelli di fede diversa dalla
nostra”.
All’avanguardia è anche il Centro Don Guanella, una
scuola per disabili gravissimi, dai neonati fino ai
ventunenni. Don Marco, il sacerdote responsabile della
struttura, spiega ai pellegrini l’impegno dei medici,
dei terapisti, degli insegnanti. Un lavoro enorme fra i
sofferenti, tutto per ridare dignità ai più piccoli e ai
più deboli, per non chiudere la porta in faccia a nessuno.
Come non l’hanno chiusa le famiglie delle otto
parrocchie della zona, che a due a due ospitano a casa loro
i ragazzi dell’AC. “Un’accoglienza
incredibile, ci hanno dato tutta la loro disponibilità, si
sono fatti in quattro per noi” racconta Patricia,
spagnola di Saragozza, che è alloggiata a Cana. Maria
Grazia che rappresenta la Puglia e arriva da Otranto, ha
gli occhi che le brillano: “la nostra famiglia è
composta da otto persone: i genitori, cinque figli e la
nonna che ci ha accolto in italiano, perché lo aveva
studiato da bambina. Dopo una cena ricchissima, la casa si
è riempita di amici e parenti, venuti apposta per conoscere
me e le altre ragazze ospitate. Una di loro viene da
Betlemme e qui a Nazareth non c’era praticamente mai
venuta”.
Scende la sera sulla città e i tamburi ancora non smettono
di suonare. Il ritmo è lo stesso ma le mani sono cambiate:
adesso ci sono i giovani del Kenya. Si portano dentro la
pena per il loro Paese che vive tempi difficili,
drammatici, violenti. Eppure continuano a cantare.
“Hakuna Matata”: vivi sereno, tranquillo. La
speranza non muore. Meno che mai da queste parti.
Avvenire – Sabato 5 gennaio 2008
Ieri è stato il primo giorno di pioggia che ha bagnato i
pellegrini dell’AC in Terrasanta. Una pioggerellina
accompagnata dalla foschia, che ha avvolto la variopinta
compagnia nel corso della traversata del Lago di Tiberiade
e lungo la Salita del Monte delle Beatitudini. Quasi che la
cronaca e la meteorologia si fossero messe d’accordo.
Così che quando sono risuonate le parole della Scrittura:
“beati gli operatori di pace”, la nebbia
tutt’intorno ha funzionato da risposta decisamente
eloquente.
Eppure alla foschia non ci ha creduto nessuno. Non ci ha
creduto Don Salvatore, Assistente Generale dell’AC in
Burundi. Ha studiato a Roma Dottrina Sociale grazie
all’aiuto dell’Associazione Italiana, poi è
tornato a casa dove avevano bisogno di lui. In Terrasanta
ci è arrivato accompagnato da un gruppo di laici. “Al
nostro ritorno lavoreremo con 20 mila persone sul tema
dell’apertura a una cultura di pace, di cui da noi in
Africa c’è davvero bisogno. Senza l’AC la
nostra chiesa sarebbe come il Nuovo Testamento senza gli
Atti degli Apostoli.
All’annebbiamento della pace non ci stanno nemmeno i
ragazzi ucraini. Nel loro Paese la guerra non c’è. In
compenso, come qui, le confessioni cristiane sono divise
profondamente, spiega Volodymyr, Presidente di ACR in
Ucraina: “il nostro obiettivo è la riconciliazione,
l’unità delle chiese. Dal 2000 quando organizzammo il
primo raduno ecumenico nazionale, ci stiamo impegnado per
questo. Torneremo a casa con un lungo video girato qui. Lo
mostreremo ai nostri giovani e potrebbe il punto di
partenza per un gemellaggio, magari con una parrocchia di
Gerusalemme”. Intanto continua l’esperienza di
accoglienza nelle famiglie galilee. Dietro ogni storia ci
sono piccoli gesti di generosità, che raccontano il grande
cuore di questa gente. Ad esempio, Riad Touma ha 51 anni,
una moglie di nome Salwa e cinque figli, ed è il
responsabile degli Scout della parrocchia greco-melchita di
Cana: all’arrivo dei pellegrini aveva messo a
disposizione la sua casa, ma gli era stato risposto che i
ragazzi erano già stati alloggiati tutti.
Contemporaneamente, chi scrive insieme a Luca Sardella,
rappresentante della Liguria, erano finiti a dormire in un
convento di suore. Ma Riad non si è arreso ed è tornato
alla carica, perché voleva fare la sua parte. Quindi si è
saputo che c’era ancora qualche pellegrino sistemato
in strutture alberghiere, e noi abbiamo fatto i bagagli e
ci siamo trasferirti a Cana. Dove abbiamo trovato la
famiglia riunita intorno a un tavolo ricoperto di dolci e
una stanza tutta per noi. Non quella degli ospiti, ma la
camera dei figli maschi, i quali hanno passato la notte sul
divano. Abbiamo mangiato insieme e ci siamo presentati:
nomi, provenienze, studi e lavori. Poi lo scambio di
impressioni sulla Terrasanta, sulla situazione dei
palestinesi, sul Muro. Gli amici cananei non vivono le
limitazioni di chi abita in Cisgiordania, perché sono arabi
ma cittadini israeliani a tutti gli effetti. Ma lo
sconforto non si cancella con un passaporto. In realtà, la
tristezza dura un attimo: qualcuno stappa una bottiglia.
E’ vino di Cana, un vino doc, se non per gli enologi
di certo per i cristiani. Brindiamo. Nessuno dice a che
cosa: non c’è bisogno di dirlo.
Avvenire - Domenica 6 gennaio 2008
Venerdi sera a Cana. Qui di feste se ne intendono: vantano
il più famoso pranzo di nozze della storia. Nella
parrocchia latina ci sono i dolci di tutti i Paesi ospitati
dalle famiglie locali. Ci sono Spagna, Italia, Argentina,
Ucraina. Naturalmente non mancano le specialità arabe. Si
canta, si balla, si mangia. Si prega fra gli scavi che
hanno riportato alla luce la casa degli sposi e una delle
sei giare protagoniste del primo miracolo di Gesù.
“Fate quello che vi dirà”: le parole di Maria
risuonano dalla bocca di Abuna Francois, parroco
francescano siriano. Abuna Touma sacerdote melchita e
pilota di piper nel tempo libero (qui lo chiamano “il
prete volante”) parla di “famiglie
adottive” e non ci va lontano.
Nella casa che ci ospita si tira tardi per chiacchierare,
raccontarsi, confrontarsi sulle scelte della propria vita.
Le etichette saltano: non c’è più arabo, né europeo,
ma solo donne e uomini, genitori e figli. Ci si accorge con
facilità che, se le culture sono distanti, l’umanità
della gente non lo è affatto. Nella mattina di ieri i 150
giovani pellegrini dell’AC lasciano Nazareth e
dintorni per l’ultimo tratto di strada del loro
viaggio. Ci si abbraccia e il Vescovo Marcuzzo scherza sul
“virus della Terrasanta”: chi viene qui ne
resta per sempre contagiato, si innamora di questi luoghi e
non guarisce più. I ragazzi annuiscono e si sentono già
irrimediabilmente malati. Ma lo stato di salute si aggrava
salendo sul Tabor, il Monte della Trasfigurazione. Sotto lo
sguardo dei pellegrini c’è tutta la Galilea.
Esattamente 40 anni prima, il 5 gennaio 1964, contemplava
lo stesso paesaggio Paolo VI, il quale 4 anni più tardi
avrebbe inviato 28 giovani dell’AC italiana a
celebrare a Betlemme la Prima Giornata Mondiale della Pace.
Quasi un cerchio si chiude.
Ultima tappa prima del volo di ritorno è Haifa, una delle
più popolose città dello Stato d’Israele. I ragazzi
sono ospiti del Carmelo: sono i carmelitani scalzi ad
animare la parrocchia latina della Sacra Famiglia.
“Abbiamo circa 2500 fedeli – spiega Padre
Renato Rosso, parroco qui da 7 anni – che si
ritrovano nella chiesa nuova dopo che il monastero antico è
stato distrutto nella guerra del 1948”. Una comunità
variopinta: “qui ad Haifa ci sono tanti lavoratori
stranieri e la parrocchia fa da punto di riferimento,
soprattutto per i filippini, i rumeni, i polacchi”. E
poi c’è la scuola. “Funzionano tutte le classi,
dalle elementari fino al diploma – continua il
religioso – con circa 700 alunni, dei quali un buon
30% musulmani. Si fa formazione professionale e
naturalmente educhiamo alla convivenza fra le religioni.
Non è un discorso facile, ma abbiamo anche avviato alcune
attività specifiche: nel 2006 ho accompagnato al Sermig di
Torino 12 ragazzi, metà palestinesi e metà
israeliani”.
Il monastero ha una particolarità: qui il culto di
Sant’Elia accomuna la devozione dei cristiani, dei
musulmani e degli ebrei. Una casa comune: è il sogno dei
cristiani di Terrasanta. E da oggi è anche il sogno dei 150
ragazzi di AC di tutto il mondo.
Stamattina a nome di tutti, Carolina dell’Argentina e
Anitha del Burundi regaleranno al Papa Benedetto XVI un
presepio durante l’offertorio della Messa
dell’Epifania in San Pietro. Un gesto per raccontare
al Papa che i pellegrini dell’AC sono tornati a casa
stanotte, ma che il cuore non ha voluto saperne di prendere
l’aereo.