LA REPUBBLICA - VENERDI 12 GENNAIO 2006

I PADRONI DI MILANO di Curzio Maltese

A Roma coprirebbero il Colosseo con le mutande di Dolce&Gabbana? Dolce&Gabbana bella…la metrica tiene, ma è un’altra cosa. Dario Fo, il Nobel più snobbato della storia, estrae un magnifico disegno di palazzi e canali: “questo si dovrebbe fare: scoperchiare i Navigli, tornare ai tempi di Stendhal. Invece stanno svuotando la Darsena per farci i garage. Milano è così. Si pugnala da sola”
Una città senza più splendore. E’ sempre stata trasformista, capace di adattare il corpo e l’anima al potere dominante. Scriveva Guido Piovene nel “56: “è una città utilitaria, demolita e rifatta secondo le necessità del momento, e perciò non riesce mai a diventare antica”.

Ma ora il grigiore e la noia delle periferie hanno invaso il centro: la città non è mai stata così anonima e invivibile come oggi. Nessun grande progetto o evento. La convivialità si consuma nel rito dell’happy hour, il dibattito cittadino è confinato alla rissa annuale per l’assegnazione degli ambrogini d’oro, e il gusto della modernità è ridotto a una maniaca opera di lifting urbano. Milano è divenuta più brutta e più ricca di sempre, avvelenata dall’aria più irrespirabile d’Europa. Senza identità né memoria. Un mese fa, per la ricorrenza della strage la Cgil ha chiesto agli studenti delle superiori se sapevano cos’era successo in Piazza Fontana il 12 dicembre 1969. Il sessanta per cento ha risposto “non so”, il venti “un attentato delle Br”, un altro dieci “una bomba islamica”.

Per farsi coraggio occorre guardare oltre la nebbia del presente, verso la Milano di un futuro da scegliere,
un futuro che può diventare grandioso. I soldi ci sono. Quelli non sono mai mancati. Si produce sempre qui un decimo del Pil, un terzo se si considera la grande Milano di sette milioni e mezzo di abitanti, la seconda megalopoli d’Europa dopo Parigi-Ile de France. La città brulica di quartieri dove lavora il gotha dell’architettura. Renzo Piano a Sesto San Giovanni, Norman Foster a Santa Giulia, Daniel Libeskind, Arata Isozaki e Zaha Hadid alla vecchia Fiera, Santiago Calatrava all’alta velocità, Bolles e Wilson alla nuova biblioteca europea, Pei e Cobb al grattacielo della Regione che manderà in pensione il Pirellone, oltre alle opere già realizzate: la Fiera di Fuksas la Bicocca di Gregotti. Non si progettava tanto dai tempi degli Sforza. Milano ha raccolto il testimone di laboratorio urbanistico dalla Parigi degli anni Settanta, dalla Barcellona degli anni Ottanta, dalla Berlino dei Novanta. La Triennale si prepara a diventare una Mecca per l’architettura, come fu un boom per il design. Ma fra il Luna Park degli orrori del presente e la città futuribile meravigliosa manca un ponte, una classe dirigente.

Chi comanda oggi a Milano? L’ultimo padrone della città è stato Bettino Craxi. Berlusconi con tutto il suo potere, in città non ha mai fatto sistema. Oggi per capire chi comanda, bisogna inseguire l’unica traccia sicura nel caos cittadino: i danèe.
Dalla bufera di Mani Pulite in poi è successo questo: una montagna infinita di soldi e di potere è passata di mano. Dal vecchio capitalismo industriale e familiare, governato da Enrico Cuccia e legato a doppio filo con la politica alla nuova finanza globalizzata e immateriale giovane e cosmopolita, che non ha bisogno né di palazzi romani né di salotti né di televisioni. In questa città oligarchica per natura e struttura, nell’ultimo decennio ha conquistato il potere una schiera di oligarchi quarantenni.

Il nuovo Cuccia potrebbe essere il banchiere
Alessandro Profumo, genovese di nascita ma milanese da sempre, che scherza “io sono molto banale, le azioni non sono capace di pesarle, le devo contare e basta”. A trent’anni ha preso la guida di Credit e dal “94 a oggi ha portato la capitalizzazione da un miliardo di euro ai 70 del gruppo Unicredito, sesta o settima banca continentale. Non s’è mai visto in televisione o dalle parti del Parlamento. Considera i salotti “una vera iattura cittadina”, e se ha una serata libera preferisce la mensa della Casa della Carità di don Colmegna rifugio di rom e immigrati alle cene della Milano bene. Per dire il personaggio, se n’è andato dal più ambito dei salotti cittadini, il Patto di sindacato del Corriere della Sera, sbattendo la porta, per comprarsi un altro pezzo di Polonia o di Turchia. Come molti nuovi oligarchi milanesi, vota a sinistra ma non ha contatti diretti coi leader dei partiti. Il fatto è che “per fare lobby il Parlamento italiano a noi non serve: due terzi delle nostre attività sono all’estero, 60 mila dipendenti fuori Italia e un settanta per cento di investitori stranieri. Il vecchio capitalismo era autarchico e cresciuto sotto la sottana dei partiti, noi abbiamo con la politica un rapporto laico. Non chiediamo favori, appalti, rottamazioni ma progetti ambiziosi, regole per competere e servizi a livello europeo. A me piacerebbe per esempio che Malpensa non fosse uno dei peggiori aeroporti del mondo. Ma ci è andato?”
Ci sono andato. Un’ora almeno di coda fra check-in e controlli, la metà dei voli in ritardo, il maresciallo che mi ha mostrato negli schermi le facce degli addetti ai bagagli già licenziati per furto e tutti riassunti: un suk.

Fra i ricchi milanesi non se ne trova più uno che ammetta di aver votato Berlusconi. Non è soltanto il trasformismo secolare delle classi dirigenti e del popolo milanese. E’ che la nuova razza padrona, Profumo e il mondo che lo precede e lo circonda, da Giovanni Bazoli a Corrado Passera, i nuovi dirigenti di Mediobanca guidati dal quarantenne
Alberto Nagel è antropologicamente lontana dal modello arcitaliano di berlusconiano. Respinto l’ultimo assalto restauratore dei “furbetti del quartierino” guardano a un futuro internazionale. Sono i protagonisti del boom della Borsa milanese, al quarto anno di crescita consecutivo, con un più 16 per cento nel 2006 e una capitalizzazione che ha ormai raggiunto i 777 miliardi: metà del Pil nazionale.
Umberto Maiocchi veterano di piazza Affari per 60 anni era stato il primo a predire nel “93 all’Herald Tribune la fine delle grandi famiglie. Visto che ci aveva azzeccato, gli chiedo un’altra profezia sulla Milano del futuro. “Il Paese si sta internazionalizzando a un ritmo spaventoso. E a Milano dieci volte di più, perché qui arriva quasi la metà degli investimenti stranieri in Italia. La fine di Tangentopoli vissuta all’epoca come un lutto, si è rivelata al contrario un volano formidabile per l’economia. I milanesi non sono mai stati tanto ricchi”.

Ma il vento della globalizzazione soffiava in realtà già prima delle inchieste (e prima della rivoluzione del capitalismo comunista cinese aiutato dai sindacati, n.d.r.). “Anzi è stato la vera causa storica di Mani Pulite, quello che l’ha resa possibile” riflette oggi Francesco Saverio Borrelli mitico capo del pool. Ora quel vento ha attraversato e scompaginato l’intera economia cittadina perfino nei settori più simbolici dell’epopea craxiana: la pubblicità e la moda. Delle dieci grandi aziende della moda del pianeta, quattro hanno sede a Milano: Dolce&Gabbana, Prada, Armani e Versace. Ma per le due dominanti, Prada e Dolce&Gabbana, che negli anni Ottanta hanno superato tutti per vendite, fatturato, quote di mercato internazionale, il celebrato rito Modit non significa molto: Prada è stata lanciata dalle sfilate newyorchesi, Dolce&Gabbana dalla rockstar Madonna. “Per la prima volta in quarant’anni le sfilate milanesi vanno deserte – testimonia Krizia - non solo la produzione, ma anche i simboli vanno altrove”.

Progetti urbanistici
Un altro effetto della globalizzazione è che tutto è diventato immateriale. La città stessa appare immateriale, avvolta in una nuvola di affari che portano altrove, alla City londinese o a Pechino. Non si produce più nulla di concreto e la vecchia città fabbrica ha lasciato orbite vuote, crateri di buio e fango. Ma se si sale all’ultimo piano del Pirellone la prospettiva cambia, la sensazione fisica è travolgente: gru, gru e ancora gru a perdita d’occhio, una foresta di cantieri, un esercito di giganti al lavoro. Un cantiere di sei milioni di metri quadrati. Tutta l’area delle vecchie fabbriche. Una ricostruzione da dopoguerra. Ancora di più che dopo i bombardamenti. E’ l’affare del secolo. Il grande monopoli. Tutti, vecchi e nuovi si sono catapultati a mettere le mani sul corpo della città. L’intramontabile Antonino Ligresti s’è preso la testa dell’ex Fiera. Gli americani del gruppo Hines alle viscere commerciali fra Garibaldi e Isola dove sorgerà la Città della Moda. Le cooperative e Giovanni Bazoli di Banca Intesa in società con Euro Milano si sono presi il cuore della Milano operaia: la Bovisa destinata a diventare la sede del Politecnico. “Una città di studenti e professori al posto delle tute blu, il primo vero campus italiano” spiega l’amministratore delegato di Euro Milano Alessandro Pasquarelli, altro quarantenne d’assalto come il suo rivale e amico di Hines Manfredi Catella.

La fetta più grossa, i polmoni a nord e ad est sono toccati al più misterioso dei nuovi oligarchi:
Luigi Zunino. In un’inchiesta sulla Milano dei Settanta Giorgio Bocca si chiedeva: ma chi è questo Berlusconi venuto dal nulla, che a quarant’anni apre cantieri da mezzo miliardo di lire al giorno? Oggi nessuno domanda chi sia questo piemontese di Nizza Monferrato, classe 1959, che quindici anni fa era registrato alla Coldiretti come viticultore e ora fa shopping comprando interi palazzi a Champ Elisées e il leggendario Badrutt Palace di Sainkt Moritz, e soltanto a Milano a avviato due progetti di città nella città con Renzo Piano e Norman Foster: l’ex area Falck e Santa Giulia, per due milioni e mezzo di metri cubi. Città ideali con grattacieli sospesi come palafitte su immensi parchi, case ipertecnologiche, sedi universitarie, centri congressi, vivai d’impresa, moderni agorà, teatri e multisale, sistemi di trasporto e di riscaldamento a idrogeno: il rinascimento prossimo venturo. “I più ambiziosi progetti urbanistici mai visti in Italia dal dopoguerra” si vanta lui, e non esagera. Qualcosa al cui confronto Milano 2 il microcosmo fondante dell’ideologia berlusconiana appare come un modellino di Lego. Ma chi è Zumino? Una specie di Berlusconi rosso, iscritto alla Cgil dell’agricoltura, buon amico di D’Alema e Bassolino, amicissimo di Alfio Marchini, l’ultimo dei famosi costruttori romani detti “calce e martello”, circondato da parenti militanti nel Pci e ora in Ds e Rifondazione (non è certo ‘la terra desolata’ del poeta Thomas S.Eliot, né il ‘deserto’ di Giovanni Testori, né la povera ‘proprietà privata’ cantata dalla candidata al Nobel per la letteratura Alda Merini: ‘da tempo io mi domando di chi sia questa proprietà’, n.d.r.). Bel caso davvero. Eppure Zunino è uno dei pochi italiani davvero illustri dei quali è sconosciuta perfino la scheda biografica. Di persona è un tipo affascinante di visionario, un autodidatta dai mille talenti, un affabulatore capace di mille digressioni sul modo giusto di allevare i cavalli e usare le barche. Cerco allora di andare al sodo e gli chiedo perché mai un milanese dovrebbe comprare una casa a Sesto San Giovanni o vicino a Linate, per quanto splendide e griffatissime, al prezzo di un appartamento in via Montenapoleone. “Perchè vive meglio che in centro e fa un investimento, e forse perché non è milanese. Voglio dire, sa qual è il vero problema di Milano? Che attira soldi dai cinque continenti, ma non persone. Gli uomini d’affari vengono, concludono, scappano. Il quaranta per cento degli appartamenti di Santa Giulia è già prenotata da business-men stranieri. Berlusconi vendeva sicurezza a una borghesia milanese spaventata dagli anni di piombo. Noi vendiamo un investimento e uno stile di vita ai manager internazionali”.

La classe politica locale
Ora se si mette sul piatto della bilancia la silenziosa e potente ascesa degli oligarchi, lo spessore di un Profumo, le ambizioni di uno Zunino, e sull’altro piatto il vanitoso e rissosissimo agitarsi della classe politica locale, affamata di talk-show, si capisce che non c’è partita: il divorzio fra danèe e politica è consumato. Il declino della politica milanese è cominciato da tempo, dal folgorante esordio del primo sindaco “nuovista” a Palazzo Marino, Marco Formentini. “Dobbiamo tornare ad essere una grande capitale europea” annunciò. E aggiunse: “come Boston”.

“Politica e affari viaggiano ognuno per conto suo” dice
Umberto Veronesi, memoria storica della città. “Ma questo non è un gran vantaggio. Il vecchio sistema è franato nel disonore, ma all’origine aveva un suo slancio mecenatesco, una visione d’insieme dell’interesse generale e perfino una certa tempra etica, quasi giansenistica. Sa com’è nato l’Istituto dei Tumori? Sono andato a casa di Enrico Cuccia e gli ho esposto il progetto. Lui ha fatto dieci telefonate e in un’ora c’erano i soldi. Adesso ho da anni il progetto di una Città della Salute che renderebbe Milano capitale europea delle biotecnologie. Ne ho parlato con tutti, politici e imprenditori. Entusiasti. Ma non ce n’è uno solo che abbia il potere di dire: questa cosa si farà”. L’ultimo contatto diretto del professor Veronesi con il Comune risale a quindici anni fa: “volevano un’idea per migliorare la salute dei milanesi e glie l’ho data: costruite trecento chilometri di piste ciclabili come ad Amsterdam. Fantastico! Hanno urlato e poi Formentini ha riaperto il centro al traffico”.

Il traffico scoppia e l’ecologia ne soffre
Il risultato è che Milano con la migliore rete metropolitana nazionale, ha un traffico levantino peggiore di Napoli e Roma. Qui avvengono un quarto degli incidenti stradali di tutta Italia e sono settecento i ricoverati d’urgenza per smog ogni anno. I parametri di inquinamento rimangono fuori controllo per trecento giorni all’anno. In realtà il traffico è una tragedia materiale e una metafora sociologica delle “quattro Milano” che vivono l’una accanto all’altra e non s’incontrano mai. Le ha individuate Guido Martinetti: la prima è quella dei residenti veri e propri, ormai minoranza e sempre più anziani (tre nonni per ogni bambino). La seconda è quella dei pendolari. La terza è quella dei consumatori che vengono in città per divertirsi e comprare. La quarta è quella degli uomini d’affari. E poi c’è un quinto stato, gli immigrati. Sono la forza lavoro del nuovo boom, gli operai dei cantieri edili e delle centomila “fabbrichette” dell’hinterland: camerieri, lavapiatti, baby sitter, domestici, il 15 per cento della popolazione, un quarto dei bambini milanesi. Eppure non è mai stato costruito un solo quartiere per loro, come furono per i meridionali le deprecate ed oggi invidiabili “coree” degli anni Cinquanta. Se la politica ne parla è soltanto per “l’allarme criminalità”, le famose “bande straniere” che in verità esistono , ma sono composti da semplici manovali agli ordini dei calabresi, che da dieci anni comandano la Milano nera e ne hanno fatto la capitale europea della cocaina. In galera naturalmente ci finiscono soltanto i manovali stranieri. Così è facile tenere comizi sull’allarme immigrati, le bande slave o maghrebine, i fantomatici “finanziamenti di Al Qaeda alla moschea”.


Lo spirito ambrosiano

Tanto del resto si occupa don Virginio Colmegna. C’è un campo rom da sgomberare? Ci pensa don Colmegna. Ci sono duecento profughi da accogliere? Ci pensa don Colmegna. La città che ha inventato in Italia la solidarietà laica e socialista, che ha fondato l’Umanitaria copiata da tutte le socialdemocrazie europee, oggi delega l’intero ramo dei “problemi sociali” a un ex prete operaio di Sesto San Giovanni che incarna l’antico mito cittadino del “sindaco dei poveri”. Ma con un linguaggio da politico raffinato e colto, uno stile da manager e una premessa secca: “a me il buonismo fa schifo e poi non serve a niente”. La Casa della Carità in fondo a viale Padova, ai confini col deserto che una volta era la Marelli, è uno dei posti più allegri e vitali di Milano. Una bella cascina, un’oasi di vecchia Lombardia piena di suoni e canti, circondata da quei casermoni anonimi e muti dove si è scritta la vera storia di Milano, dove prima ci abitavano gli impiegati ripresi da Ermanno Olmi ( maestro del cinema fin dai tempi dell’Albero degli zoccoli, n.d.r.) e gli operai meridionali, ora marocchini e cinesi. Don Colmegna non si limita a risolvere i problemi pratici, ma organizza mostre e feste di quartiere, porta la Scala qui, e gli ottoni zingari al Piccolo, fa incontrare i ricchi con i paria della piramide cittadina “Quello che manca a Milano è l’urbanità, la civiltà cittadina, l’arte dell’incontro”. Alla sua mensa si ritrovano le vecchie famiglie aristocratiche e i nuovi oligarchi, la Scala e il Piccolo, la destra e la sinistra. Ci vanno Profumo e Bazoli, e c’è andato Fedele Confalonieri che quasi s’è commosso: “ho ritrovato lo spirito della Milano del dopoguerra. Sarò retorico, ma è quella del ‘coeur in man’, la capacità di accogliere e integrare, quelle piccole botteghe di pane che mi ricordano i prestinai di una volta. Magari con la scritta in arabo”. (E’ la Milano della Madonnina, l’unica vera padrona di Milano, ed è la Milano dei santi sconosciuti, di tutti coloro che “offrono testimonianze edificanti”, come dice il Vescovo di Lodi Mons. Giuseppe Merisi nell’annuncio della Visita Pastorale fatto con la Lettera “Vi ho chiamato amici”, n.d.r.)