UNA CASA PER QUELLI CHE RITORNANO
L’OPERA DI GUIDO PICCAROLO
Tempi – n.38 - Settembre 2011

“Ogni mattina mi alzo e ho bisogno di trovare una buona ragione per non uccidermi”. Suona così il finale di una lettera pubblicata dal Los Angeles Times nel 2009 e firmata da Gamal, uno dei primi marines a soccorrere le vittime del 11 settembre, uno dei primi a partire per l’Iraq, e uno dei tanti che, una volta tornato in patria, si è ritrovato a soffrire di post-traumatic stress disorder (Ptsd), un disturbo causato dall’esperienza schoccante della guerra, che spesso impedisce di mantenere un posto di lavoro, e guadagnarsi da vivere. Gamal non riesce più a pagare neanche le bollette, perde la casa, e in poco tempo diventa, da eroico figlio della patria, un senzatetto.

Sono moltissimi i reduci che negli Stati Uniti condividono la stessa sorte di Gamal. Su due milioni di soldati impiegati in Afghanistan e Iraq, circa 500mila, al ritorno dal fronte, soffrono di Ptsd. Secondo l’Army Times, il periodico ufficiale dell’esercito americano, il tasso di disoccupazione, che negli Stati Uniti si attesta intorno al 12 per cento, per i wounded warriors, come sono anche chiamati i militari che tornano dalla guerra con danni fisici e psichici, è più alto del 50 per cento. Senza contare che, come annunciato dal presidente Barack Obama, entro il 2012 più di 30mila soldati lasceranno l’Afghanistan per rientrare in America. Ma ritrovarsi senza casa (fenomeno che alla fine del 2012 riguarderà 59mila soldati) e senza lavoro, non è il problema più grande dei veterani: ogni giorno negli Stati Uniti 18 reduci del conflitto in Iraq si tolgono la vita. Il fenomeno è cresciuto in modo costante dal 2001.

“Quando questi ragazzi, spesso giovani tra i 25 e i 30 anni, rientrano da un conflitto, trovano un paese impreparato a reinserirli nella società, perché troppo impegnato a uscire dalla crisi. E’ il triste paradosso di chi ha dato tutto per la patria e si trova ad essere trattato come un problema da risolvere”. A parlare è Guido Piccarolo, ex analista finanziario della Walt Disney, che si è licenziato per aprire insieme a una collega, Nancy Albin, il Los Angeles Habilitation House (Lahh), vera e propria azienda a scopo benefico che dà lavoro a persone con disabilità psichica. E per farlo non ha certo aspettato la congiuntura favorevole: “nel 2008 l’America era in piena recessione economica, nessuno attorno a noi rischiava qualcosa di nuovo, ai nostri colleghi uscivano gli occhi dalle orbite, quando dicevano che ci licenziavamo per cercare di dare lavoro a persone che nessuno vuole assumere”. Quell’anno in California, lo Stato più ricco d’America, sono stati tagliati 101mila posti di lavoro, e su 546mila disabili in cerca di occupazione, solo il 3 per cento trovava un impiego”. Una situazione che avrebbe scoraggiato chiunque. “Ma se avessi dovuto aspettare la fine della crisi, avrei fatto meglio a rimanere dov’ero. Invece, durante l’ultimo corso di un master che stavo conseguendo nel 2004, sono andato a visitare un’agenzia che dava lavoro a disabili. Guardando quei ragazzi, li ho visti così felici di poter finalmente lavorare, che mi è venuto il desiderio di aiutare anch’io quelle persone. Sono arrivato in America come immigrato, e non è stato semplice trovare un impiego: desideravo che anche quei ragazzi potessero vivere quello che ho vissuto io”. Così Guido insieme a Nancy mette su un’impresa di pulizie che oggi si mantiene con i ricavi del lavoro per il 70 per cento, e solo per il 30 per cento con le donazioni”.

“Quando siamo partiti nel 2008 – racconta Piccarolo – non c’era occupazione, non c’era mercato. Tuttavia questo non ci ha scoraggiati, ma ci ha portato ad essere realisti, ad aguzzare l’ingegno e guardare quel poco che avevamo. Visto che il pc costava mille dollari, anziché comprarlo, abbiamo cercato delle donazioni. Poiché il prezzo delle case era alle stelle e nessuno voleva affittare. Abbiamo trovato una scuola in disuso da sistemare, con un amico costruttore. Le pareti le ho dipinte io: non c’erano i soldi per pagare l’imbianchino. Non ho aspettato che lo Stato mi regalasse dei fondi”. L’azienda parte e Guido assume i primi tre disabili. Poi nel 2009 la lettera di Gamal sul Los Angeles Times. “Da quando l’ho letta, non sono più riuscito a stare tranquillo” racconta Piccarolo. “Io mi alzo la mattina con un gran desiderio di vivere, non potevo rimanere indifferente davanti a uno che sperimentava tutto l’opposto”. Guido entra in contatto con i centri statali di reintegro dei veterani, incontra i reduci e propone a tutti un periodo di training in vista dell’assunzione. “Non pretendo di salvare tutti i ragazzi che tornano dalla guerra: ho a disposizione pochi posti di lavoro. Ho solo visto che nella società si faceva strada un bisogno, non solo di avere un impiego, ma di qualcuno che dica a queste persone: ‘sono con te’. E siccome io ho avuto la grazia di incontrare nella mia vita qualcuno che me lo ha detto, volevo comunicarlo a mia volta”.

Più delle parole di Guido, vale l’esperienza di chi è rinato lavorando. Come Cris: “non mi hanno solo introdotto in un’azienda di pulizie, mi hanno aperto gli occhi su quella forza interiore che pensavo di avere perso in guerra. Questa compagnia non dà agli impiegati appena un posto stabile dove imparare un lavoro, ma insegna qualcosa che riguarda tutta la vita”. Cris Hartsock, 26 anni, il primo veterano a entrare in Lahh. Dieci anni di militare, gli ultimi due passati in Iraq, dopo il ritorno in patria nell’agosto 2007, si è ritrovato senza lavoro né casa. “Cercavamo un responsabile dei disabili, che coordinasse il lavoro delle pulizie” ricorda Guido, “così lo abbiamo assunto”. Un inizio che si è rivelato più importante di quanto Cris non pensasse: “quando ho accettato l’offerta, pensavo a un altro lavoretto part-time per guadagnare qualche soldo. Ancora non mi rendevo conto di quanto fosse importante quello che stavo cominciando. Adesso capisco che è stata per me la più grande opportunità da quando ho alzato la mano destra per giurare di difendere la Costituzione da soldato”. Dopo due settimane di lavoro, Cris viene colto da un attacco di ptsd. Guido è il primo a soccorrerlo: “l’ho portato in ospedale, e dopo la visita, i medici gli hanno riscontrato i disturbi di cui era affetto: difficilmente sarebbe potuto ritornare a fare un lavoro fisico”. Cris sa come funzionano queste cose, e si prepara ad essere licenziato, come capita a tutti i soldati quando si presentano i primi disturbi. “Noi invece gli abbiamo semplicemente cambiato mansione” racconta Guido. “Gli abbiamo affidato compiti di ufficio. E dopo due mesi passati a scrivere documenti, un giorno mi ha detto: ‘attraverso questo lavoro e grazie a voi, ho riscoperto talenti che pensavo di avere perso in guerra. Posso ancora scrivere, pensavo di non esserne più capace. Riesco a leggere, riesco a stare di fronte a un testo scritto. Allora ho deciso di fare l’università, per riprendere le passioni a cui credevo ormai di dover rinunciare per sempre’. Era rinato”.

Dopo Cris, altri 40 veterani hanno cominciato l’apprendistato in Lahh, che oggi ha un organico di nove dipendenti con disabilità e sei reduci da Iraq e Afghanistan. Uno di loro è Mike, che un giorno, davanti a un piatto di pasta, domanda a Guido quello che viene spontaneo chiedersi: “ma tu perché ci aiuti?”. E lui risponde con le parole che avrebbe voluto rivolgere anche a Gamal: “io nella mia vita ho incontrato delle persone che mi hanno fatto capire che ho un valore, che siamo amati sempre, e c’è qualcosa per cui vale la pena alzarsi, vivere, lottare”. Non è filantropia: “sono stato analista finanziario per 15 anni” spiega Piccarolo. “Ora lavoro nel campo delle pulizie. Non ho studiato psicologia. Non sono un esperto nell’integrazione lavorativa dei malati mentali. Mi limito a insegnare un mestiere, e prendere sul serio le esigenze di queste persone. Ma la vera difficoltà non è formarli al lavoro, non è il limite fisico o mentale, ma l’assenza di quello sguardo e di quell’abbraccio, l’unico in grado di valorizzarti fino in fondo, quello con cui Dio mi ha guardato e abbracciato. Lo stesso con cui cerco di guardare loro”. E quando questo viene percepito, le cose cambiano: “lo Stato ci mandava i migliori specialisti per aiutarci. Conoscevano alla perfezione i programmi da attuare, ma i programmi a un certo punto, davanti all’esigenza umana, non funzionano. C’era uno dei nostri ragazzi autistici che non riusciva mai a finire in tempo il lavoro, un dettaglio fondamentale per un’impresa di pulizie. Così ho chiesto allo specialista come mai succedesse così, e quello mi ha risposto: ‘è autistico, non può lavorare nel tempo concordato, arrenditi. Just give up’. Ma nella mia vita nessuno si è mai arreso davanti al mio limite. Quindi l’ho preso con me, abbiamo lavorato insieme per una settimana, e oggi lui finisce il suo lavoro in tempo come tutti gli altri. Questo dimostra che il nostro motto non è solo una frase fatta: abilità e protagonismo nella vita nascono dalla certezza di essere voluti e amati”.