SULLE ROTTE DEI DISPERATI
Articolo di Marina Corradi
Avvenire – Venerdi 21 Agosto 2009
Sono arrivati in cinque. Erano scheletriti, cotti dal sole
che martella in agosto, nel canale di Sicilia. Ma il
barcone era grande: ce ne stipano 80 i trafficanti di
uomini su barche così, in Libia. Affastellati uno sopra
l’altro come bidoni, schiena a schiena, gli ultimi
seduti sui bordi, i piedi che penzolano sull’acqua. E
dunque quel barcone vuoto, con 5 naufraghi appena, è stato
il segno della tragedia. Laggiù a 12 miglia da Lampedusa,
ai margini stremi dell’Europa, un relitto di
fantasmi. Cinque vivi e forse più di 70 morti in 20 giorni
peregrinazione cieca nel Mediterraneo. Decine e decine di
eritrei inabissati come una povera zavorra di ossa in fondo
a quello stesso mare in cui a Ferragosto si incrociano navi
da crociera, traghetti, yacht dei ricchi. E’questo il
dato che raggela ancora di più. Perché in venti giorni
nelle acque di Libia e di Malta, e nel mare aperto qualcuno
avrà pure incrociato, o almeno intravisto da lontano quel
barcone: ma lo ha lasciato andare al suo destino. Solo da
un peschereccio, hanno detto i superstiti, ci hanno dato da
bere. Come dentro ad una spietata routine, eccone degli
altri. E non ci si avvicina. Non si devia dalla rotta
tracciata per un pugno di miserabili in alto mare.
Noi non sappiamo immaginare davvero come sia immenso il
mare visto da un guscio alla deriva: come sia spaventoso e
nero la notte, senza una luce. Come picchi il sole sulle
teste. Come devasti la sete, come scarnifichino la pelle
quelle ustioni. Noi del mondo giusto, che su quelle stesse
acque d’agosto ci abbronziamo, non sappiamo quale
spaventevole nemico siano le onde, quando il motore è
fermo, e l’orizzonte una linea vuota e infinita. Non
possiamo sapere cosa sia assistere all’agonia degli
altri, impotenti, e gettarli in acqua appena dopo
l’ultimo respiro: “altri” che sono magari
tuo marito o tuo figlio. Ma bisogna liberarsene, e non
c’è tempo per piangere. Perché quel sole, tormenta e
disfa anche i morti. E i vivi vogliono vivere. Noi non
sappiamo com’è il Mediterraneo visto da un manipolo
di poveri cristi eritrei sfuggiti dalla guerra, sfruttati
dai trafficanti, messi in mare con un pò di carburante, e
vaghe indicazioni di una rotta.
Ma c’è almeno un equivoco in cui non è ammissibile
cadere. Nessuna politica di controllo della immigrazione
consente a una comunità internazionale di lasciare una
barca carica di naufraghi al suo destino. Esiste una legge
del mare. Ed è ben più antica di quella pur codificata nei
trattati. Questa legge ordina: in mare si soccorre. Poi a
terra opereranno altre leggi: diritto di asilo, di
accoglienza, di respingimento. Poi. Ma le vite si salvano.
E invece quel barcone vuoto – non il primo arrivato
come un relitto di morte alla soglia delle nostre acque
– dice del farsi avanti fra le coste africane e
Malta, di un’altra legge: non fermarsi, tirare
dritto. (Pensate su quella barca, se avvistavano una nave,
che sbracciamenti, che speranza. E che piombo nel cuore nel
vederla allontanarsi all’orizzonte). La nuova legge
del non vedere. Come per abitudine. Per assuefazione.
Quando leggiamo delle deportazioni di ebrei sotto il
nazismo, ci chiediamo: certo, le popolazioni non sapevano,
ma quei convogli piombati, le voci, le grida nelle stazioni
di transito, nessuno le sentiva? Allora erano il
totalitarismo e il terrore a fare chiudere gli occhi. Oggi
no. Una quieta rassegnata indifferenza, se non anche
un’infastidita avversione nel Mediterraneo.
L’Occidente ha occhi chiusi. Cinque naufraghi sono
arrivati a dirci di figli e mariti morti di sete dopo
giorno di agonia. Nello stesso mare delle nostre vacanze.
Una tomba al nostro lieto mare. E una legge antica violata,
che minaccia le nostre stesse radici. Le fondamenta.
L’idea di cos’è un uomo. E di quanto
infinitamente vale.