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OMELIA PER IL 60° DI SACERDOZIO
LA MEMORIA: IL SORRISO DI UN BIMBO
Domenica 29 maggio 1994



Penso alle parole di S. Ambrogio: “Gesù attende le tue lacrime, per profonderti la sua
misericordia”.
E ripeto le parole di Maria: “Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente, e Santo è il Suo Nome” (Lc. 1-49).
Con stupore, con umiltà, non senza lacrime, ringrazio la Vergine Madre che mi ha sorriso e benedetto dal mio primo sorgere alla vita e, guidandomi alla vocazione sacerdotale, mi ha colmato di tenerezza e di misericordia ad ogni passo nel mio lungo cammino, fino a questo vespero che, sempre per suo dono e l'umile mia speranza, è la vigilia dell' incontro con l'Amore infinitamente misericordioso, nel giorno senza tramonto.
Mi salgono dal cuore le parole di S. Agostino: “Oh mio Dio, che io mi ricordi di ringraziarti!” “Recorder!, ricordare!”.

La memoria, è la giovinezza dei vecchi, ha scritto Santucci. Con lui vorrei esaltare la bellezza e la commozione dei ricordi, in questo mio cuore dell'inverno, perché solo ricordando, possiamo esprimere a Dio e a tutti la pienezza della nostra gratitudine e del nostro amore.
Non è buona cosa l'eclissi dei ricordi e l'apostasia della memoria è spesso sorella della ingratitudine.

La memoria ce l'ha imposta Cristo quando, nell'ultima Cena, transustanziando il pane ed il vino nel Suo Corpo e nel Suo Sangue, ha soggiunto: "Fate questo in memoria di Me".
Questo stupefacente mistero, l'apice di ogni Mistero quaggiù, il pane ed il vino che diventano il Corpo ed il Sangue di Cristo, Gesù lo ha affidato alla nostra memoria. E con Lui e per Lui, da quella sera, questa parola ha mutato significato. Memoria: non più un tempo inesorabilmente passato, ma la terra della promessa; non deserto e cenere, ma una fiamma d'amor viva; non un'eco che svanisce nel nulla, ma una Voce che ci assicura che nulla va perduto, non un pensiero o un gesto di bontà, una carezza d'amore, un sorriso, un palpito del cuore, una lacrima: la memoria, una dolce musica che ci annuncia la Pasqua nuova ed eterna.
Per questo Dostojevski ammoniva: “Nulla vi è di più forte e sano, nulla di più alto e nobile, per l'avvenire della vita, nulla di più utile di un buon ricordo, soprattutto se esso appartenga all'infanzia”.

Dall' infanzia credo di non essere mai uscito, vivendo sempre con un velo d'ingenuità. Posso ripetere, senza mentire: vengo dalla mia infanzia come dalla verde campagna in cui sono nato. Perché vi è un'infanzia senza età che investe il cuore di un vecchio che ricorda e si commuove, un'infanzia evangelica che diviene l'essere stesso e lo trasfigura in una luce pacata che annuncia la speranza di Dio. Il bimbo è il padre dell 'uomo. Beata infanzia! Da allora ho amato Dio, l'ho cercato, ho incominciato a parlarGli. Ma, anche, dai miei primi anni di vita, ho conosciuto il dolore. Iniziavo appena a vivere e già mi gherrniva l'esperienza della morte. L'improvvisa scomparsa del fratellino, al quale mi legava un tenerissimo affetto: avevo quattro anni. E poi la lunga dolorosa agonia e la morte della dolcissima nonna materna: avevo sette anni e mi hanno dato la profonda conoscenza del pianto umano e di quello che Paul Bourget definisce in un suo romanzo: “Il senso della morte”.

Erano gli anni della prima guerra mondiale, col babbo al fronte nelle zone più insanguinate, il Carso e il Grappa. Tanto orrore, un'inutile strage e fiumi di sangue versato. Un giovane ucciso una sera, non lungi da casa mia, da un soldato in licenza, mi fece capire che “il sangue di un uomo solo, sparso per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra”. (Manzoni). Poi la spagnola, che portò molti alla morte e mi strappò un tenero amico. Sensibile di natura, mi sentivo come stretto in un sudario.

Ignoro quanto soffrano i bimbi di oggi. Io da allora ho imparato a guardare ad ogni persona, a cominciare dai bimbi, dal di dentro, col rispetto di ognuno e la partecipazione intima al dolore di tutti. Ciascuno mi è testimone di come abbia ogni volta partecipato con dolore e spesso non senza lacrime alla esequie dei nostri cari scomparsi. Gli occhi che hanno pianto leggono in fondo al cuore.
Penso che Gesù, che tanto ha amato i fanciulli, abbia una singolare pietà delle lacrime nascoste, a tutti taciute, di un bimbo povero e indifeso. Non era il patetismo lacrimoso di Lewis nè il demone dell' angoscia di Bernanos, ma la sofferenza di un cuore sensibile e solo, di un fanciullo timido e silenzioso. Confidavo le mie pene ad un quaderno che ho subito distrutto, per tema che lo scorgesse mia madre.

Ma ho anche conosciuto le gioie dell' innocenza, ho gioito della bellezza del vivere, ho ammirato lo splendore della natura, ho imparato a sorridere e a godere del sorriso dei cinque fratellini che mi seguivano.

Il sorriso di un bimbo
è uno dei misteri più affascinanti. È una prova luminosa dell' esistenza dell’anima immortale, un vero appello all' amore, quasi la presenza dell' Angelo Custode che sembra agitare la sua fiamma.

Ho subito gustato la musica e il canto e capito il senso della preghiera silenziosa, con l'impegno che, anche in un bimbo si trasfigura in una specie di contemplazione. Come quando, leggendo i cenni biografici del giovane cappuccino Fra Giuseppe Maria da Palermo, assaporavo lo splendore di quel suo proposito: “Mio Dio, voglio farmi santo”.

Vorrei tornare ora, in questa mia età estrema, alla limpidezza e all'innocenza di quei miei primi segreti incontri con Dio, che erano slanci affettuosi, premessa e promessa di una vita che voleva volgersi tutta e solo alla sequela di Cristo.

Molto ho appreso dai catechismi del mio assistente d'oratorio e dall' insegnamento della mia maestra di quarta elementare. Da quella bravissima maestra ho imparato il corretto scrivere italiano e l'analisi logica, con l'amore allo studio e alla riflessione. Il catechismo che frequentavo assiduamente, mi riempiva di luce e ricordo la commozione che mi colse quando, il mio indimenticabile e santo don Ercole Galimberti, ci parlò a lungo della vocazione verginale al sacerdozio. Devotissimo dell’Eucaristia e dell’Immacolata, fu quell'anima verginale ad avviarmi fanciullo al quotidiano servizio della Messa.

La preghiera è tutto nella vita cristiana e tanta forza attinsi da quell'intensa pietà, da quelle preghiere, che mormoravo anche camminando tra il verde dei campi o che, mandato gratuitamente a dieci anni nella colonia socialista di Porto Maurizio, recitavo in ginocchio, solo tra i compagni, la sera, prima di coricarmi.
Il mio sogno, da sempre, era il sacerdozio, ma non osavo confidarlo ad alcuno. Provvidenzialmente, un mio piccolo amico, rivelò al nostro Don Ercole che volevo farmi prete. Appena dopo un mese, ero in seminario a S. Pietro Martire di Seveso, in prima ginnasiale.

Non so dire quanto debba ai nostri seminari diocesani, fondati dal santissimo Arcivescovo e Padre Carlo e dall' inizio ispirati alla vita e alla dottrina di S. Ignazio di Loiola. Una crisi di scrupoli afflisse la mia adolescenza. Me ne liberò S. Teresa di Gesù Bambino, il giorno stesso della sua canonizzazione, la domenica 17 maggio 1925. Fu ancora Lei, con la sua autobiografia e la sua devozione al B. Teofano Venard, martire nel Tonchino, ad ispirarmi la chiamata alle missioni, così che nell' estate del 1927, a sedici anni, bussai alla porta del noviziato delle missioni africane, dove mi accolse quello straordinario missionario che fu il P. Faustino Bertenghi, il cui solo aspetto e l'angelico sorriso annunciavano la presenza di un santo.

La mia gracile salute mi costrinse, appena dopo un anno, a rientrare in seminario. Taccio di quelle mie esperienze, degli studi, del mio amore e rispetto ai Superiori ed ai compagni che tutti ricordo con amore e rimpianto.

Sacerdote, ho subito capito che dovevo rinunciare alla mia inclinazione alla solitudine e al silenzio, per donarmi ed aprirmi ad ognuno che incontrassi. Ho così conosciuto migliaia di giovani, ho incontrato ed avvicinato innumerevoli famiglie, ho amato, ho faticato, mi sono talora logorato negli incessanti colloqui, prima coi piccoli seminaristi, poi coi giovani del Collegio di Tradate e della Famiglia Universitaria di Milano, fino al mio incontro con P. Gemelli e ai tredici anni trascorsi in un apostolato senza tregua, anche d'estate, nell’Università del Sacro Cuore.

Il mio rapporto con P. Gemelli, al quale ero stato segnalato dall' amico don Carlo Gnocchi, fu sempre più intimo e profondo. Di lui dovrei dire tante cose. Potente e prepotente, come lo definì il Cardinale Montini, P. Gemelli fu un vero gigante dell’intelligenza e dello spirito. Fu il primo nella Chiesa a ideare ed a creare gli Istituti Secolari. Fu il primo a portare la psicologia in Italia, anche se talora ha diffidate della psicanalisi. Fortissimo e volitivo, sempre con idee nuove, spesso violento, aveva il senso dei suoi limiti e li confessava con sincerità e non senza commozione. Era certamente un uomo di Dio, un’anima santa, per fede, spirito di preghiera, semplicità e vero eroismo nel sacrificio, trascinandosi pe1 lunghi anni in carrozzella, esposto nei suoi lunghi continui viaggi ad atroci dolori, da lui sopportati senza un lamento. Scomparso il Padre, capii che Dio mi voleva altrove.

Il mio desiderio era di unirmi a Don Cesare e ai suoi confratelli, per un apostolato umile e silenzioso nella allora minuscola parrocchia di S. Giacomo di Zibido.
Fu il Cardinale Montini a dirmi, il 26 giugno 1962, che il venerando Monsignor Natale Magnaghi mi voleva suo aiuto e successore a S. Maria Segreta. Approdai qui la sera del primo settembre successivo e iniziai da allora il mio ininterrotto lavoro di servizio a questa Chiesa. Mi aveva soggiunto il Cardinale: “Le affido la parrocchia della borghesia più altamente qualificata di Milano”. Ma venni e mi comportai come sono, un piccolo e modesto prete che ha la coscienza della sua pochezza, con solo una grande fede nell' aiuto e nella misericordia di Dio.

Ho visitato le vostre case che ho conosciute quasi ad una ad una, ho avvertito l'ansia di prodigarmi per voi, ho cercato di recare qualche briciola di verità ad ogni cuore, ho visitato i vecchi in solitudine, i malati spesso crocifissi in un letto di dolore, ho amato i vostri figli, ho predicato la Verità, a tutti ho donato il mio sorriso e il mio cuore.
Vi devo la mia gratitudine, che sarà eterna perche ho ricevuto assai più del poco che ho dato.

Dal 1973 ho condiviso coi sacerdoti la mensa in una comunione d'amicizia sempre più profonda; come voleva l'angelico don Toni Weber: fare una casa sola coi sacerdoti. Ricordo con rimpianto don Enzo. La sua morte è stata per il mio cuore una ferita che solo il Cielo potrà rimarginare; dico grazie a don Mario e a don Franco più validi e generosi di me. È un dono vivere accanto a persone di noi più dotate, perche nella vita non si impara mai abbastanza. La parrocchia deve a don Mario, col quale ho condiviso diciannove anni di vita comune, la creazione di un bellissimo gruppo giovanile che ha reso questa Chiesa sempre fresca di preghiere, di molteplici attività tutte benefiche, di serene amicizie, alcune fiorite nella gioia di nuove famiglie. Posso ripetere quello che è stato detto: che, in tanti anni di fatica, don Mario ha saputo creare il più fiorente gruppo giovanile della città. don Franco ci ha donato la sua alta sapienza e la straordinaria cultura all'altare, nel confessionale, nell’affabile consuetudine con tutti, nella commovente predilezione per i vecchi, nella creazione di incontri culturali giovanili, seguendo con don Mario i malati, prodigandosi ininterrottamente in un apostolato esemplare ed efficace.
Il “grazie” del cuore a questi miei carissimi amici è appena una languida eco di una inesprimibile gratitudine.

Nella fuga rapinosa delle ore, dei giorni e degli anni, eccomi ora alla mia sera! Non pavento la morte! L'attendo come una sorella che mi porga la mano e m'introduca nella casa del mio Dio. So donde vengo e dove vado. Piango i miei peccati e ne imploro il perdono. Le mie deficienze sono sotto gli occhi di tutti e io non le nascondo a me stesso.

L'uomo di oggi non sa morire e molti non credono nella vita futura. Triste è il ricordo che ho della morte di Michel Foucault. A quanto dicono gli amici, Foucault, che taluni in Francia hanno proclamato il più grande filosofo del secolo e che è morto di Aids, non era mai parso così sereno come nelle ultime settimane di vita. Nè aveva mai riso così pazzamente come quando, sul punto di morire si immaginava "la porta che si apre sulla sua storia, sapendo che sarebbe presto scivolato dall' altra parte di quella soglia, ormai polvere senza più parole, senza più parlare, senza più ascoltare, senza più cercare, non più ingabbiato, finalmente libero dal bisogno di verità". Una morte lugubre, con gli occhi del vuoto, il volto del nulla su uno sfondo di tenebre. Per questo ho sempre tanto amato i peccatori, col tormento di ricondurne almeno qualcuno al cuore di Dio. E se è vero che la misericordia infinita è attirata dal povero, il peccatore che è il più povero tra tutti i poveri, richiama in modo particolare l'amore di Dio.
Bisogna però ricordare il monito che l'Immacolata, triste nel volto, rivolse a Bernadette: “Prega per i peccatori”.
Beata la sposa di Lewis che morendo mormorava al sacerdote: “Sono in pace con Dio”.
Beato il giovane di 23 anni che, entrato in agonia il giorno di Pasqua, ripeteva alla mamma: “È Pasqua! Sono felice di morire per vivere questo giorno con Gesù. Mamma, è la mia risurrezione che incomincia...”.
Beati i molti che ho accompagnato al grande passo e dei quali ho ammirato, nello sguardo e talora nel sorriso, la luce della speranza celeste.

Parliamo poco del Paradiso, ma è la sola realtà stupenda e a noi così vicina, dove Cristo è salito per prepararci un posto. Orizzonti ampi, infiniti, colori e musiche che non conosciamo, splendori che non riusciamo ad immaginare. E poi, l'incanto di Dio, l'astasi senza fine della contemplazione trinitaria, il sorriso di Cristo, il volto di Maria, la comunione dei Santi.
Sulla volta della Sistina vi è uno dei capolavori di arte più stupefacenti, dove s'incontrano l'intuizione del genio e l'appassionato amore del credente. Il dito di Dio che si avvicina con forza, onnipotenza e amore, dolcezza e tenerezza infinite, al dito del primo uomo.
Il paradiso è questo: il dito di Dio, la sua mano, la mano più gentile e delicata, posata su di noi in eterno. Amore, perdono, luce, sorriso, per farci cantare con Maria nostra Madre la musica sublime del grazie senza fine.
Questo è il miracolo dell’amore, che ci darà la capacità di vedere, di contemplare e di godere al di là, infinitamente, di ogni nostra attesa.

Grazie, o mio Dio, di avermi pensato ed amato, di avermi chiamato per nome dall'eternità: grazie di avermi creato e voluto tuo sacerdote in eterno: grazie, come Dante ha cantato, “di questo riso dell’universo” che è il Tuo Paradiso: grazie, come ci hai promesso nell' Apocalisse, di avercene aperto la porta che nessuno più potrà chiudere. (Ap. 3,8).

Oh tu che ci hai predestinati a questo prodigio, io Ti sorrido! Sorriso dell'uomo, del cristiano, dell 'umile sacerdote,
sorriso del povero peccatore pentito. Sorriso dell’intelligenza che è un raggio della Tua Luce eterna, sorriso di tutta la vita, anche nelle ore del pianto, sorriso nella malattia, nell' età che declina, sorriso nella morte, che è il termine dell’Assenza e l'ora dell'incontro con la Tua Pienezza.
Oh mio Dio, è l’unificazione suprema col Padre, col Figlio, con lo Spirito Santo, in un'eterna festa trinitaria, in una felicità ed in un intatto candore che trascendono tutto il dicibile umano, nello splendore di un destino che ci aprirà all'amore totale, alla conoscenza senza ombre, alla visione e alla comunione con Dio e con l'universo angelico ed umano, nell'oceano di luce di tutte le stelle, nella comunione finalmente perfetta con ciascuno che abbiamo amato.
E questo, dopo il logorio, la fatica, i peccati dei nostri giorni fugaci, nel riposo e nell'innocenza del Sabato senza sera quando, finito questo nostro lungo parlare senza mai arrivare, ti loderemo, o Dio, senza fine, con una sola parola: Ti amo!