Omelia
del Patriarca Card. Angelo Scola
Santa Messa di Inaugurazione Hospice San Raffaele
Venezia - Mercoledì 15 marzo 2006
AMA IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO
Saluto tutti, saluto il personale sanitario e i
Fatebenefratelli: il superiore della Casa e il Padre
Provinciale della Comunità, e anche la comunità delle
Religiose che servono questo luogo di condivisione. Saluto
voi tutti membri del Volontariato cattolico e laico che
tanto si prodiga nella nostra Venezia per farci prossimi,
come abbiamo inteso dire nel Santo Evangelo. Saluto le
Autorità civili e militari e tutti i presenti: espressione
di una sana collaborazione tra l’istituzione civile e
gli organismi della società.
Certamente questa celebrazione in onore del Fondatore San
Giovanni di Dio non poteva trovare miglior collocazione che
in questo tempo quaresimale: la Santa Liturgia che stiamo
vivendo attraverso la Parola di Dio ci illumina sul nesso
particolarmente significativo, che esiste tra la Quaresima
e l’inaugurazione di questa importante opera, che
oggi i Fatebenefratelli aprono in Venezia, facendo eco ad
analoghe iniziative che proprio in questi giorni stanno
vedendo la luce, come il Centro Nazareth di Zelarino,
all’interno della Chiesa Cattolica, ma al servizio di
tutta la comunità.
In effetti Quaresima vuol dire pentimento. Pentimento vuol
dire disposizione al cambiamento anche radicale di sé, come
il grande Fondatore San Giovanni di Dio ci ha testimoniato,
lui che ha non ha disdegnato di farsi chiamare “pazzo
di Dio”, dal giorno in cui ascoltando San Giovanni
d’Avila in Granada, si decise a cambiare radicalmente
la sua vita tumultuosa, per esprimere una carità ardente e
appassionata per i fratelli nell’opera che iniziò, e
che ora i Suoi figli dopo cinque secoli continuano in tutto
il mondo a perpetuare.
Penitenza significa, come dice la parola, “andare in
profondità”. E’ facile per noi ridurre questo
moto di penitenza ad una sorta di buona intenzione, essa
stessa già lodevole. Il desiderio di cambiamento è
desiderio di conversione, di una certa sobrietà nello stile
della nostra vita, sobrietà spirituale e sobrietà
materiale. Ma da sempre la Chiesa, molto saggiamente ha
legato la parola “penitenza” all’urgenza
di scendere in profondità di noi stessi, urgenza che si fa
particolarmente attenta nella malattia, sia per gli
ammalati che per i loro familiari.
La Chiesa ha legato questa parola “penitenza”
con parola “digiuno”, con la parola
“preghiera”, con la parola
“carità”, con la parola
“elemosina”. E per quale ragione?
Perché
l’uomo è “uno” di anima e di
corpo. Dunque
quel cambiamento deve vedersi. Deve esprimersi in maniera
concreta, fisica, rilevabile nella vita, come ci ha
ricordato la seconda Lettura di oggi: “figlioli non
amiamo a parole, né con la lingua, ma con i fatti”. E
la natura di questi fatti ci è stata dettagliatamente
descritta ed elencata dal ben conosciuto brano di Isaia,
sempre attuale dopo 2700 anni. Esso dice: “è questo
il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique,
togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi,
spezzare il giogo, dividere il pane con l’affamato,
accogliere in casa i miseri senza tetto, vestire chi è
nudo, e – ecco la sintesi profonda – non
distogliere gli occhi da chi è della tua stessa
carne”. E qui fa la sua apparizione la grande parola
del Santo Evangelo di oggi a conclusione
dell’episodio a noi ben noto, anzi forse troppo noto,
che rischiamo di liquidarlo rapidamente dopo averlo
sentito, la grande parola: “compassione”: il
prossimo è colui che ha avuto compassione del malmenato,
del ferito, del bisognoso. E la luce sorgerà come aurora su
colui che ha compassione, e la ferita che sta in lui, di
qualunque natura essa sia – si fa qui riferimento
alla ferita profonda dell’io, soprattutto il peccato
– si rimarginerà.
Allora qui oggi inauguriamo grazie alla intelligente
collaborazione tra questa storica istituzione che è quasi
da trecento anni a Venezia, e l’istituzione preposta
al funzionamento della sanità del nostro territorio,
inauguriamo un luogo di accoglienza, di accompagnamento del
malato nella fase più delicata per lui e per i suoi
familiari: è
la fase del passaggio definitivo al Padre
Eterno, come
dicono le letture, dove per ben due volte ritorna questo
tema della vita eterna, che per noi cristiani – lo
sappiamo bene – dice simultaneamente l’aldilà e
l’aldiqua.
La vita eterna non solo ciò che ci attende dopo la morte.
Per colui che vive la fede la vita eterna e certamente la
prospettiva definitiva, e definitivamente liberata dal
male, dal dolore, dalla morte, dal peccato. Quindi la vita
eterna è la Trinità che si anticipa nella vita nuova del
cristiano, nella comunità della Chiesa fin da quaggiù: vita
nuova perché perfino gli aspetti negativi
dell’esistenza, come il dolore, la sofferenza, la
morte, ma soprattutto il peccato, trovano un senso. E
l’enigma dell’uomo nell’amore di Cristo
Gesù, nella vita eterna trova risposta.
Quindi
la vita eterna è questa
vita nuova in Cristo Signore che va oltre la
morte, sfonda
la barriera della morte, che non toglie a noi la paura
della morte , ma toglie alla morte il suo potere di
annullamento, e la rende realmente ponte, passaggio verso
l’abbraccio definitivo d’amore.
Ebbene, uno dei segni in cui più potentemente si vede che
l’amore di Cristo, e quindi che
la vita eterna è
già all’opera qui e ora nella storia concreta della
nostra vita è
proprio la compassione nel senso profondo del termine, per
colui che è nel bisogno:
questo hospice rappresenta una forma
organica di questa compassione: il
luogo della condivisione e dell’accompagnamento del
fratello uomo a questo passo così decisivo per la sua vita,
per la vita dei suoi cari, per la vita di tutti gli
operatori sanitari. Infatti, nessuno può curare nessuno, se
non si lascia lui stesso ferire in profondità dalla prova
che il paziente attraversa. Non c’è possibilità di
sopperire con la pura competenza della cura, anche se oggi
nel mondo della sanità c’è molta illusione in
proposito, come ogni giorno la stampa ci mostra e ci
documenta: tutti tesi ed affannati per i mezzi, per le
tecniche, per il connubio di scienza e tecnologia, e tutti
questi nuovi strumenti di cui la pratica medica si serve
per migliorare la qualità della vita, per allungare la
vita. E questo è molto positivo, a condizione che non ci
faccia perdere il senso della nascita e della morte,
e
non ci faccia perdere
la percezione acuta della nostra dipendenza
dal Mistero che
genera ultimamente la nostra vita e la tiene nella Trinità
Beata sulla strada che Gesù ci ha mostrato, per vincere
radicalmente il bisogno della malattia e della morte.
Con questo tipo di pienezza i nostri Padri e la Comunità
religiosa dei Fatebenefratelli, tutti gli Operatori che qui
agiscono, i Volontari, le Autorità che hanno permesso
questo strumento, con questa intelligenza ci impegnamo sul
bisogno del malato, e vogliamo rendere questo luogo un
luogo di accompagnamento per quanto possibile sereno verso
il passo estremo, che per noi non è quello finale, ma è
quello definitivo. Lo facciamo consapevoli - e insisto su
questo - che sia un accompagnamento attento a tutti i
bisogni del malato.
Ecco quindi l’importanza decisiva delle cure
palliative, con
l’attenzione alla dimensione psicologica
dell’io. Ma soprattutto e’ necessario avere il
coraggio e la fermezza di un soggetto che in questo ambito
ponga il nostro paziente nella prospettiva definitiva del
Padre che lo accoglierà. Bisogna che questi diversi aspetti
siano tra loro intrecciati, per cui oggi al linguaggio che
si parla negli ambienti sanitari – e di questo non
possiamo che gioire – si è unita la categoria di
bioetica, un insieme di scienze ancora lontano dal
possedere uno statuto e una stabilità sufficiente. E si è
unita la parola umanizzazione: la pretesa che può diventare
assoluta, di potere dominare con i nostri sforzi etici
tutto ciò che è connesso al quel processo complesso del
“bios” della vita, e si aggiunge questa
disponibilità assai più umana di fare spazio a tutto
l’uomo: ecco l’umanizzazione.
Così ad una antropologia si può legare l’etica,
affinché tutte le iniziative della pratica medica siano
sempre “per l’uomo”.
Si vuole battere
il rischio gravissimo di identificare il malato con la
malattia,
rischio di fronte al quale siamo sempre esposti e
infragiliti. Quando la prova si fa schiacciante, uno tende
a non vedere altro di sé che la malattia, come se il suo io
coincidesse con la malattia. Allora chi ha compassione, chi
com-patisce, chi patisce con lui, con l’ammalato si
fa veramente prossimo. A tutti i livelli, dagli operatori
sanitari ai familiari ai volontari,
si
deve aiutare il malato a capire che la sua
vita è più grande della malattia, ed è
qualcosa che né la malattia né la morte potrà distruggere.
Qual
è la strada per raggiungere questo?
Bisogna che con forza e coraggio il Patriarca dica a tutti
in questo luogo benedetto qual è questa strada. Ce
l’ha detto poco fa la Prima Lettera di Giovanni:
“ … da questo abbiamo conosciuto
l’Amore…”. Giovanni ci dice che chi non
ama rimane nella morte, cioè non è capace della prospettiva
definitiva della vita eterna. Ma l’Amore
l’abbiamo conosciuto da questo:
Cristo ha dato
la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita
per i fratelli. Senza
questa consapevolezza non si possono accompagnare i malati
terminali, senza la certezza granitica che un Altro mi ha
amato. Allora io posso patire col moribondo. Poi ciascuno
arriva fin dove può.
Ecco la grande questione che vi affido, e che
altro non fa che riprendere la convinzione profonda del
Fondatore San Giovanni di Dio, il quale con il suo grido:
“fate bene fratelli!”, intendeva
richiamare tutti all’esperienza dell’amore di
sé come fondamento dell’amore per gli altri.
Nell’occasione di questa festa, tutti noi che siamo
coinvolti a vario titolo in quest’opera recuperiamo
ciò che il comandamento ci dice:
ama il prossimo tuo come te stesso.
Ricordiamo quel “come”. Bisogna tendere a
quell’amore che esige il riconoscimento del proprio
limite e che fa spazio alla Salvezza.
Mentre ringrazio di cuore la comunità dei Fatebenefratelli
per questa bella iniziativa che dà ricchezza alla nostra
Venezia, rinnovo a tutti l’invito a lasciarsi
riconciliare con Dio in Cristo in questa Santa Quaresima.